Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli recensione film di Destin Daniel Cretton con Simu Liu, Tony Leung, Awkwafina, Michelle Yeoh e Meng’er Zhang
Chi è addentro all’Universo Cinematografico Marvel ha un’idea ben precisa di quanto può aspettarsi da una produzione di questo tipo, dato che il conglomerato di film e prodotti d’intrattenimento realizzati sotto l’attenta direzione di Kevin Feige e vigilati dalla casa madre Disney hanno tutti uno stile ben preciso, che rende le singole pellicole facilmente associabili e identificabili come un unicum esperienziale. Con il tempo, tuttavia, il pubblico deve vedere un’evoluzione rispetto a quanto abituato, altrimenti potrebbe iniziare a considerare il tutto abbastanza stucchevole, con la relativa fascinazione iniziale destinata a scemare. Ciò può portare al raggiungimento di diverse vie, che comprendono l’introduzione di nuovi volti o anche una lieve variazione sul tema stilistico, che spinga lo spettatore a riconoscere l’universo di appartenenza, ma a considerarla comunque una boccata d’aria fresca in grado di tornare a stupire con elementi rinnovati; una sorta di restauro capace di dare nuovo lustro a una creazione che inizia a mostrare il peso degli anni.
Questo è quanto accade dopo aver visto Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, ovvero trovarsi al cospetto di qualcosa di estremamente familiare, ma in grado di scovare un modo rinnovato di esprimere i suoi intenti, quali l’intrattenimento ipercinetico, il richiamo nostalgico e la costruzione di un nucleo famigliare eterogeneo in continua espansione, sdoganato dall’ottemperamento tirannico dettato dal binarismo normativo.
Come la maggior parte delle pellicole focalizzate su eroi mai apparsi prima nell’MCU, la storia segue l’ascesa di Shang-Chi (Simu Liu), figlio di un potente signore della guerra reso immortale da Dieci Anelli dalle caratteristiche soprannaturali.
Quando c’è di mezzo una relazione padre/figlio che porta all’associazione tra bene e male, solitamente la cosa si risolve in un’incomunicabilità di fondo che porta i due agli antipodi. Anche in questo caso accade qualcosa di simile, ma non totalmente, merito di una non banale attenzione alle relazioni tra i vari personaggi.
Nonostante venga presentato come un uomo assetato di potere, il cattivo di turno (che possiamo identificare come il vero Mandarino, per intenderci), interpretato da un Tony Leung sensazionale, presenta diverse sfaccettature e uno spessore che non è facile trovare nella maggior parte degli antagonisti della Marvel cinematografica.
Le relazioni che si intessono e si disvelano durante il film, pur non essendo estremamente originali e inaspettate, attribuiscono una certa complessità caratteriale ai personaggi, che ne escono rafforzati e ben congegnati. Tuttavia, a rubare la scena è proprio il villain di Tony Leung, ma forse non tanto per la scrittura, quanto per la forte presenza scenica e l’indole carismatica dell’attore, in grado di far focalizzare l’attenzione su di lui ogni volta che entra in campo (e al quale forse proprio per questo è stato dato così ampio spazio).
Per il resto, troviamo tutte le varie “balene bianche” che Disney insegue con ardore da qualche anno, tra cui personalità femminili forti ed emancipate (qualità incarnate principalmente dalla sorella di Shang-Chi, Xialing, egregiamente portata sullo schermo da Meng’er Zhang) e inclusività senza limitazioni, con grande attenzione (forse anche troppa) per una rappresentazione priva di stereotipi che valorizzi la tradizione, ma che guardi anche al sentimento (tutto occidentale) di una globalizzazione capace di abbattere barriere e divergenze culturali, così da portare uguaglianza e pari opportunità per ogni individuo (sotto lo stendardo a stelle e strisce di un’America che si prefigge sempre e comunque come centro dell’attenzione universale, anche quando l’azione si svolge altrove).
A livello visivo Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli “picchia forte”. Pur rimanendo fotograficamente abbastanza affine a quanto la Marvel ci ha abituato negli ultimi dieci anni, il film spicca per una marcata dinamicità e una coreografia dei combattimenti che fa tornare la mente ai classici del genere wuxia (pur scendendo a compromessi con le dinamiche produttive hollywoodiane).
Queste immagini ipercinetiche, che portano la firma di un cineasta da tenere sott’occhio, Destin Daniel Cretton (la cui attenzione alle relazioni tra individui già dimostrata in una piccola perla cinematografica come Short Term 12 trova efficacemente sfogo in alcuni dei momenti più emotivamente carichi della pellicola), raggiungono la compattezza necessaria grazie al fiore all’occhiello di questa produzione Marvel: la magnifica colonna sonora composta da Joel P. West (già collaboratore del regista). Proprio grazie a tale connubio orchestrato con maestria, il film è in grado di proporre un alto taso di spettacolarità senza sfociare nell’eccesso audivisivo, trovando un equilibrio interno capace di stupire ed esaltare per la maggior parte della visione.