Smile recensione film di Parker Finn con Sosie Bacon, Jessie T. Usher, Kal Penn, Rob Morgan, Kyle Gallner e Caitlin Stasey
La macchina da presa ruota lentamente attorno al volto di una donna, per poi stabilizzarsi, concentrandosi sul suo sguardo apparentemente diretto allo spettatore. Una breve carrellata nell’ambiente circostante, sugli psicofarmaci caduti sul pavimento, rivela trattarsi di un cadavere, disteso nell’oscurità di una camera da letto abbandonata a sé stessa, tra polvere e ricordi di un passato mai cancellato. Poi, due ritratti di famiglia, simili eppure differenti, raccontano la distruzione di un nucleo familiare e le sue dirette conseguenze.
Un incipit fortemente angosciante e tetro, sottolineato da una musica d’accompagnamento snervante che conduce lo spettatore verso un modello cinematografico ben preciso, in qualche modo abbracciandolo, confortandolo, confermando fin dai primi momenti le dovute attese. Pochi attimi più tardi, lo sguardo dello spettatore si riflette in quello che una bambina rivolge al corpo senza vita. È cinema horror e la suspense è già scattata, proprio come scatta la Dottoressa Rose Cotter (Sosie Bacon) riprendendosi da un incubo e liberando anche lo spettatore da quell’atmosfera macabra e oscura, conducendolo verso la luce e il presente. Ma l’inquietudine è appena dietro l’angolo, o meglio, nella stanza accanto.
Ciò che attende la psichiatra Rose in una delle molte stanze dell’ospedale in cui lavora è inaspettato, bizzarro e scioccante. Una sequenza (con protagonista Caitlin Stasey) sorprendentemente breve, eppure efficace e spaventosa: il classico momento di un film horror durante il quale la presenza demoniaca si manifesta al protagonista, stravolgendone la quotidianità e ammantandolo di buio e morte fino al raggiungimento di un punto di non ritorno, la perdizione e la possessione, qui veicolata da un tetro e inquietante sorriso e poi da urla e sguardi allucinati.
Cosa significa quel sorriso? Perché un suicidio sembra nascondere molto di più?
Nonostante Smile sia un film dell’orrore commerciale e di consumo, l’esordiente regista e sceneggiatore Parker Finn (al suo primo lungometraggio dopo i corti Laura Hasn’t Slept e The Hidebehind) si impegna a rispondere a queste domande con maggior cura ed originalità rispetto al prodotto medio del genere, evidentemente all’inseguimento del modo di fare cinema horror autoriale e riconoscibile tipico di case di produzione come la A24 (responsabile di ‘elevated horror‘ quali The Witch, Hereditary, It Comes at Night, Midsommår, Lamb e via dicendo). Ma Smile non è un film A24, e si compone di una lunghissima serie di sviluppi e procedimenti narrativi (alcuni ricercati, altri abusati e triti), che non solo non raggiunge il risultato sperato, ma nemmeno lo sfiora: estetica, intuizioni registiche e cura della psicologia narrativa, interpretativa e scenografica, in questo caso risultano purtroppo ancora dozzinali, e appena coraggiose, nonostante la volontà di compiere un passo in più rispetto a quanto già visto troppe volte.
D’altro canto, l’elemento che più sorprende di Smile è la forza della sua protagonista: un personaggio femminile scomodo, estremamente fragile, seppur combattivo e apparentemente distaccato, e reduce da un passato di traumi e cupezza che non sembra averlo abbandonato mai. Sosie Bacon (vista nella serie TV basata su Scream e nel film Charlie Says, nonché figlia di Kevin) modella con grande scaltrezza la sua Rose Cotter ponendola sempre in contrasto con sé stessa ancor prima che con gli altri (il suo responsabile all’ospedale Kal Penn, il fidanzato Jessie T. Usher, il poliziotto Kyle Gallner, il detenuto Rob Morgan); un atteggiamento causa di continui attacchi nervosi, attacchi di panico e squilibri psicologici ed emotivi tali da permetterle una graduale evoluzione personale che risulta in definitiva l’aspetto più interessante del film di Finn.
Le nevrosi e gli incubi si fondono e confondono senza un attimo di tregua, immergendo lo spettatore in un clima orrorifico che ricorda per certi versi il cinema di Roman Polanski (Rosemary’s Baby), ma anche Alfred Hitchcock (Gli uccelli; Frenzy) e Sam Raimi (Drag me to Hell), mescolando intelligentemente i jumpscares e il sound design dell’horror più convenzionale, al dramma familiare più autoriale e di approfondimento psicologico.
Si potrebbe considerare Smile come l’horror che Pedro Almodóvar o Xavier Dolan non hanno mai realizzato, visto che, come per la filmografia di questi due autori, il suo nucleo narrativo si concentra sul rapporto tra madri e figli/e: l’orrore come grande metafora del dramma familiare e del modo in cui i figli reagiscono alla perdita delle figure genitoriali, specialmente se legate a suicidi e sparizioni improvvise e inspiegabili.
Non è un caso perciò che i momenti migliori di tensione, panico e inquietudine si sviluppino laddove la famiglia ha (o ha avuto) respiro, come durante il compleanno del nipote di Rose: una delle scene più interessanti e meglio riuscite del film, che rivela forse un altro dei modelli di Finn, Babadook di Jennifer Kent.
Smile: sorridi e muori, muori e sorridi; non male, ma manca ancora la spinta di coraggio e ricerca visiva e narrativa che nel cinema horror dei nostri anni è capace di fare la differenza all’interno di un panorama affollatissimo. Da vedere e dimenticare, nonostante alcune intuizioni realmente interessanti e strizzate d’occhio a titoli cult che non passeranno inosservate ad un occhio attento.