Sorry We Missed You recensione del film di Ken Loach con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone e Katie Proctor scritto da Paul Laverty
Fresco della sua seconda Palma d’Oro a Cannes 2016 per Io, Daniel Blake, il grande regista inglese Ken Loach, classe 1936, torna a raccontare una storia di sfruttamento ed emarginazione con Sorry We Missed You, presentato lo scorso maggio a Cannes.
Sorry We Missed You ruota intorno una famiglia di Newcastle messa in ginocchio dalla crisi del 2008; ancora dieci anni dopo, il padre famiglia Ricky ancora si muove fra un lavoretto e un altro, mentre la madre Abbie lavora sottopagata come badante a domicilio: il figlio sedicenne Seb marina la scuola e si dà ad atti di vandalismo in giro per la città, mentre la preadolescente Liza Jane pur soffrendo per la situazione si sforza di fare da paciere. Quando il padre inizia a lavorare come corriere per una ditta in franchise, quella che sembrava essere un’opportunità di arricchimento per tutta la famiglia si rivelerà l’inizio di una spirale di eventi destinata a strozzare il piccolo nucleo famigliare.
Priva di sostegno sindacale o di una chiara situazione dei contratti, la situazione della famiglia di Ricky non è per nulla diversa da quella di migliaia di altre famiglie sparse in tutta Europa, quasi schiavizzate dai colossi del commercio elettronico per fare arrivare a casa pacchetti di ogni genere e dimensione.
Sorry We Missed You è il tipico film di Ken Loach: profondamente politico, attentissimo e lucidissimo nel mostrare i meccanismi economici e sociali che portano allo sfruttamento dei lavoratori, trova molta della sua forza dalla scelta del cast, interamente composto da non professionisti che hanno realmente vissuto situazioni analoghe a quelle dei loro personaggi. Girato in digitale senza che gli attori conoscessero dall’inizio la concatenazione degli eventi, Sorry We Missed You è caratterizzato da uno stile di regia che, per stare vicino ai personaggi, alle situazioni e alla realtà sociale in cui essi si muovono, deve purtroppo rinunciare a marcare fino in fondo l’aspetto etimologicamente “tragico” che forse inquadrature più geometriche e meccaniche avrebbero ulteriormente evidenziato.
La sceneggiatura si muove per paratassi, mai per ipotassi: vale a dire che segue una molteplicità di storie senza mai dare, a livello di struttura, maggiore importanza all’una o all’altra; laddove questa scelta inizialmente può non permettere una perfetta empatia con i personaggi, nel finale fa emergere da più parti il drammatico meccanismo che, a tratti imprevedibile, a tratti lampante nelle sue implicazioni fin dall’inizio, imprigiona la famiglia nel bisogno continuo e implacabile di lavorare, sempre di più, sempre più in fretta.
Forse uno stile di regia più fosco avrebbe fatto emergere i protagonisti: ma non sarebbe stato autentico, cristallino e “sociologico” quanto un film di Ken Loach.
Ludovico