Spencer recensione film di Pablo Larraín con Kristen Stewart, Timothy Spall, Jack Farthing, Sean Harris e Sally Hawkins alla Mostra del Cinema di Venezia 78
Spencer di Pablo Larraín: o dell’impossibilità di essere nuovi
Cos’è il potere, come si manifesta, quali sono le sue facce, le sue radici, quale il rapporto con l’uomo comune?
Potrebbero essere queste le domande centrali in Spencer, l’opera di Pablo Larraín, regista cileno particolarmente adatto a raccontare gli anni più bui del Cile (la dittatura dal 1974 al 1990, con Pinochet) ma anche a scivolare poi nell’intimo, rendendo i suoi racconti apologhi politici ma soprattutto morali.
Con nove film in tredici anni, è riuscito a condurre una sua personalissima indagine riuscendo a slegarla dal regime trasformandola in una ricerca più profonda e sottile, capace di coinvolgere, in un orizzonte più ampio, non solo il Cile ma arrivando a Dallas, il giorno dell’omicidio di Kennedy.
Il cinema di Larraín sfugge in questo modo ai cliché sul “cinema politico”: lo sguardo è quello di una ricerca storica, dai toni freddamente entomologici e quasi autoptici, alla ricerca della causa naturale più che dello schieramento politico.
È per questo che partendo dal capolavoro Post Mortem Larraín ha tracciato un percorso autoriale che può essere accostato alla Pop art di Warhol: una riflessione non tanto sulla riproducibilità dell’opera d’arte, quanto per come ha voluto cristallizzare l’oggetto/icona (Neruda, Jackie Onassis, ora Lady D) esplorandone le viscere, necrotizzando quindi il mito per decifrarne i caratteri.
Tony Manero, e poi Neruda, e ancora Ema: la pazzia, il passato, un senso costante di oppressione sono temi che fanno parte dello spettro di emozioni e dei temi che percorrono la spina dosale della filmografia di Larraín, e che puntuali ritornano in Spencer. Fungendo anche da base teorica per una storia che, nel passaggio dalla realtà alla fantasia, sembra volersi colorare dei lugubri toni di una ghost story, un racconto fantasmatico sul peso del passato e sui fantasmi dell’anima.
Ma per quanto l’assunto iniziale sia suggestivo, Spencer sembra non prendere mai il volo, fin dalla prima sequenza che soffoca tutto l’incipit: Lady D che esclama “Fuck Off”, dispersa nella campagna inglese. Per poi levarsi gli occhiali e mostrare il perenne broncio di noia generazionale della stessa Kristen Stewart che aveva dato pessima prova di sé dovunque fosse passata.
Anche a voler essere buoni, e a non pensare ad un possibile confronto tra lei ed Emma Corrin – la Diana del serial The Crown -, e neanche tra lei e Natalie Portman – la Jackie del film omonimo sempre di Larraín, sempre a Venezia, sempre con i toni del biopic -, bastano le smorfie e le spalle alzate a far piombare la sua Lady D nel terreno scivoloso e disastrato della parodia.
Nonostante un supporto musicale di primissimo ordine, il film corre su binari di incredibile prevedibilità nonostante lo scarto a destra di Larraín che decide di immaginare i giorni dell’ultimo weekend di Carlo e Diana sposati a Natale, irrompendo in una sorta di narrazione esistenziale più che storica ma che sembra non portare a niente.
Non c’è tensione e non c’è dolore, solo la programmaticità di un’attrice non all’altezza del peso di un personaggio così stratificato come la principessa del Galles: oltretutto, in una sceneggiatura che fa ampio ricorso a luoghi comuni e storie abbondantemente riviste, facendo sorgere il dubbio sulla reale necessità di un altro film su Diana.