Storia delle parolacce recensione della serie TV di Christopher D’Elia con Nicolas Cage, Jim Jeffries, Sarah Silverman, Nick Offerman e Isiah Withlock Jr.
Negli ultimi dieci anni, Netflix ha saputo ben tener testa alle sfide e gli obiettivi prepostisi, basti pensare, per un attimo, al peso specifico di opere come Roma (2018), Storia di un matrimonio e The Irishman (2019). Nel 2021, non contenta di aver saputo rilanciare la Youtube Original Cobra Kai (2018 – in onda), rileggendone la ratio in modo arguto, realizza un piccolo gioiello: prendere Nicolas Cage e vestirlo da presentatore in una docuserie sociolinguistica con cui raccontare le origini delle imprecazioni più comuni. Nasce da qui Storia delle parolacce (2021) di Christopher D’Elia. Un’opera che tra il serio e il faceto, riesce a sorprendere ed intrattenere, partendo proprio dall’incredibile appeal del suo “interprete”.
Perché è chiaro, la principale ragione che spingerà l’utente Netflix medio a pigiare play è soltanto lui: Nicolas Cage. Tra formidabili alti e numerosi bassi, specie nell’ultimo decennio, ma nella carriera di Cage si legge il percorso dell’uomo e di un professionista duttile e mutevole.
Negli ultimi trentacinque anni infatti, Cage ha prestato il suo iper-mimico volto per i più svariati ruoli. È stato l’empatico reduce del Vietnam in Birdy – Le ali della libertà (1984); un panettiere in crisi esistenziale salvato da un colpo di fulmine in Stregata dalla luna (1987); criminale follemente innamorato e lisergico in Cuore selvaggio (1991); sceneggiatore alcoolizzato in preda a manie suicide in Via da Las Vegas (1995) con cui vince l’Oscar 1996 al Miglior attore protagonista, e perfino un workaholic che riscopre il senso della vita in The Family Man (2000).
Poi beh, i debiti, gli sperperi, la sequela semi-infinita di b-movies da nomi perlopiù impronunciabili alla Tokarev (2014); i low-low-budget come il remake de The Wicker Man (2006) e il flebile Looking Glass (2019); la deriva horror lisergica di Mandy (2018) e quella lovecraftiana de Il colore venuto dallo spazio (2019). Opere in cui gli viene chiesto semplicemente di “fare il matto” foraggiando, di riflesso, la crescita della nomea di artista in declino ma dall’irresistibile magnetismo. Qualcosa che avrebbe potuto buttare giù altri artisti e che Cage affronta con una professionalità invidiabile, a prescindere da quanto sia “osceno” lo script propostogli.
Nel cast della docuserie in sei puntate disponibile su Netflix dal 5 gennaio 2021 figurano: Nicolas Cage, Nick Offerman, Isiah Whitlock Jr., Sarah Silverman; Nikki Glaser, London Hughes, Jim Jeffries, Zainab Johnson, Melissa Mohr, Kory Stamper e Elvis Mitchell.
Storia delle parolacce: Nicolas Cage mattatore assoluto
La struttura di Storia delle parolacce è semplice e immediata: Cage entra in scena, introduce l’argomento “alla sua maniera”; lascia il posto a stand-up comedian, sociologi e sociolinguisti “a camera fissa”; tornando infine nella climax di ogni puntata dove tira le somme in modo comicamente arguto. Di fatto l’interprete de Il ladro di orchidee (2002) è il trascinatore e l’assoluto protagonista.
Davanti alla telecamera Cage fa realmente ciò che vuole andando a briglia sciolta: urla fu*k a pieni polmoni citando sé stesso ne L’ultimo inganno (1993); declama una lode alla vagina come fosse un poeta del Dolce Stil Novo; parla con il suo commercialista su di un iPad infarcendo però il discorso di doppi sensi come a rivolgersi al suo pene; seduce, emoziona, provoca e fa riflettere. Nelle vesti da insolito e colorito divulgatore scientifico “alla Alberto Angela” Cage funziona tantissimo. Strappa risate tra provocazioni e aneddoti, dando interi filoni di pane per i denti di chi s’aspettava di vederlo in versione “matto”.
L’arguzia di Storia delle parolacce sta proprio qui. Piazzi uno storyteller totalmente inedito e di grande appeal, costruendogli però attorno un formidabile lavoro di indagine sociolinguistica, in pratica: “vieni per Nicolas Cage, ma resti per il contenuto“. Nel corso delle sei puntate, la docuserie di D’Elia procede infatti servendosi di un linguaggio (tele)filmico innovativo e vivace.
Ci sono citazioni e curiosità cinematografiche d’ogni tipo. Da Cage che reinterpreta la celebre battuta finale di Clark Gable in Via col vento (1939) a Persona (1966) e Bella di giorno (1967); Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare (1984) e Breakfast Club (1985); Misery non deve morire (1990); I segreti di Twin Peaks (1991-1992); Jurassic Park (1993); Pulp Fiction (1994); Snakes on a Plane (1996) e Face/Off (1997); Il grande Lebowski (1998); sino a Hot Fuzz (2007) e The Wolf of Wall Street (2013), quest’ultimo eletto peraltro, il film con più usi della parola “fu*k” nella storia del cinema.
Salta fuori perfino che Jonah Hill è l’attore ad aver usato più parolacce in un solo film; che Cage ha usato fu*k nel 70% delle pellicole a cui ha preso parte; e che Whitlock Jr. sta allo sh*t come Jackson al motherfuc*er.
Parolacce e libertà di parola: l’intrinseca valenza della docuserie di Christopher D’Elia
Ma non solo, servendosi infatti di contributi di eminenti sociologi e linguisti come Melissa Mohr (Holy Sh*it: A Brief History of Swearing) e Kory Stamper (Word by Word: The Secret Life of Dictionaries), Storia delle parolacce accede al sapere comune raccontando genesi, utilizzi e potenziale futuro di alcune delle parolacce più inflazionate: fu*k, sh*t, bitch, di*k, pus*y e damn.
Un’attenta indagine sociolinguistica e storiografica sulla vita di ogni parola in relazione anche ai gender studies. La docuserie di D’Elia dispiega così tutto il suo intrinseco potenziale narrativo tra riferimenti alle ultime parole di W.C. Fields e Roald Dahl e come il Codice Hays e Jack Valenti della MPAA abbiano influito nello sdoganamento cinematografico della parola f*ck; nonché della crociata dei Twisted Sister in difesa delle parolacce nelle opere musicali come espressione della libertà di pensiero dell’individuo.
Da Storia delle parolacce apprendiamo perfino come sh*t derivi dalle merci di scarico delle navi mercantili nel Quattrocento. O di come, ad esempio, bitch sia un insulto bivalente: de-virilizzante per gli uomini, mortificante per le donne, e che per questo, negli ultimi vent’anni, si sta cercando una riqualificazione culturale in positivo tra l’omonima canzone di Meredith Brooks e U.N.I.T.Y. di Queen Latifah.
Nel dispiego delle narrazione episodica apprendiamo inoltre come di*k sia nato come diminutivo di Richard e che soltanto negli anni settanta, con l’ascesa di Richard “Di*ky” Nixon, sia stato riletto nell’accezione di tutti i giorni; e di come il termine pus*y nasca come nomignolo nel Cinquecento per “moglie dolce“, divenendo infine oggetto di ricodifica linguistica in epoca moderna tra Gola Profonda (1974) e il comico Rudy Ray Moore con la sua Eatin’ Pus*y. Parolacce quindi, da non intendersi unicamente come imprecazioni, espressioni estemporanee del nostro stato d’animo, ma simulacro di un mutamento culturale e di una corrispettiva carica valoriale; specchio della società di riferimento e delle sue correnti trasformiste tra rivincite e auto-affermazioni.
“I’m Nicolas Cage. Have a great fuc*in’ night“
In chiusura dell’ultima puntata, la narrazione affida a Nicolas Cage un interessante (e colorito) monologo che ben spiega la ratio di Storia delle parolacce:
La storia di “damn” è la storia di tutte le parolacce, e quindi anche la storia della nostra cultura; di come cambiano credenze e paure perfino restando immutate. Le parolacce rivelano i nostri valori e la nostra morale; come gestiamo la tensione tra discorsi pubblici e vita privata. C’è qualcosa di profondamente umano nelle parolacce; al brutto ma bellissimo incrocio tra la nostra mente cosciente e il nostro corpo animale.
In breve, le parolacce saranno utili soltanto finche avremo un cuore, un cervello, e un buco del cu*o.
Come spesso succede con i documentari “vincenti”, Storia delle parolacce parte da premesse leggere, dissacranti, come un’operazione simpatia con cui bearci di Nicolas Cage e del suo folle talento istrionico per poi prendere la sorprendente via “impegnata” tra sociolinguistica, analisi storiografica e gender studies; ribaltandone aspettative e percezioni in modo intelligente e incisivo. Per Cage è invece l’ennesimo tassello a conferma di una parabola ascendente iniziata con Spider-Man: Un nuovo universo (2018) e che lo vedrà prossimamente in Prisoners of the Ghostland (2021) di Sion Sono e nel catartico The Unbearable Weight of Massive Talent (2021); una rinascita artistica come fosse una terza vita di un uomo dai mille talenti e dalle mille sorprese.