Storia di mia moglie recensione film di Ildikó Enyedi con Léa Seydoux, Gijs Naber, Louis Garrel, Sergio Rubini, Jasmine Trinca, Luna Wedler e Josef Hader
Léa Seydoux e Louis Garrel. Poteva bastare solo questa coppia a rendere un film di quasi tre ore apprezzabile nel panorama cinematografico francese (ed internazionale). Eppure, non sono stati sufficienti per riuscire a portare su un altro livello una pellicola che prometteva bene, e che vede tra gli altri anche Sergio Rubini e Jasmine Trinca.
E la regista ungherese Ildikó Enyedi, acclamata al Festival di Berlino con l’Orso d’Oro per il film Corpo e anima, sembra aver smarrito la retta via con il suo Storia di mia moglie, presentato alla 74ª edizione del Festival di Cannes in concorso per la Palma d’Oro. Tanto più se si parla di un adattamento cinematografico del romanzo ungherese La storia di mia moglie di Milán Füst.
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La pellicola mette in scena il delirio del capitano di fregata olandese Jakob Störr (Gijs Naber) che per scommessa sposa la prima donna che entra nel démodé caffè francese. La donna è la misteriosa e intrigante Lizzy (Léa Seydoux), che dà inizio alla sua lunga storia d’amore tormentata.
Storia di mia moglie è un dramma ossessivo che osa vestirsi con l’abito nero del thriller psicologico e che manca la sua mossa vincente frantumandosi nell’allegoria del sortilegio bello e buono. Come se ci fosse una sorta di magia nera con i meravigliosi lineamenti francesi che muove i fili del disastro cinematografico.
Provocazione, disturbo (?), menzogne, ossessione compulsiva accanto a un costoso bourbon e sigarette fumate in ogni dove. Lizzy con un potere seducente quasi soprannaturale che manovra l’onestà (l’unica qualità sublimata) di Jakob che tarda nella sua fiscale puntualità da capitano di una nave. E perde la bussola davanti al suo benestante portamento da femme fatale, che lo imprigiona nel suo sguardo magnetico per servirsene quando ne ha bisogno. E si intrufolano anche i tantissimi why senza nessuna interpretazione nella futile messinscena di una storia, che non esaudisce il desiderio dello spettatore di perdersi tra i meandri del morboso racconto di maniacale gelosia.
Storia di mia moglie è un vacuo exploit indebolito dalla totale assenza di dettagli che si scontra con i (troppi?) problemi tecnici in sede di montaggio. E fin dalla prima scena, subito dopo il caffè, la proposta di matrimonio che Lizzy accetta volentieri (per cupidigia o per divertirsi?) e l’immancabile sigaretta sulla bocca di entrambi, la cinepresa indugia sulle sensuali tentazioni amorose della bravissima Léa Seydoux che si prende il merito di salvare quel poco che rimane recuperabile. E i flashback o qualche scena in più sul passato di Lizzy, funzionali alla trama per snocciolare alcuni punti snodali, non hanno ragione di esistere e si scontrano contro l’eccelsa apatia di chi del lungometraggio, se non ha letto il romanzo (e forse nemmeno in quel caso?), cerca di sviscerare le profondità recondite dell’incubo psicologico che si limita meramente a disegnare una linea continua, nella monotonia dei frame dopo frame.
È un pura allucinazione costruttiva senza parafrasi Storia di mia moglie, l’ultima opera di Ildikó Enyedi. In tutti i sensi.