Stranger Eyes – Sguardi nascosti recensione film di Yeo Siew Hua con Wu Chien-ho, Lee Kang-sheng e Anicca Panna
di Lavinia Colanzi
Con il suo terzo lungometraggio, Stranger Eyes – Sguardi nascosti, il regista singaporiano Yeo Siew Hua continua ad esplorare temi di disorientamento e alienazione in un mondo iperconnesso e sempre più distaccato.
Dopo sei anni dall’uscita di A Land Imagined (2018), Yeo torna a interrogarsi sulla percezione del reale, portando in scena una riflessione tanto intensa quanto inquietante sulla natura dello sguardo e della costruzione dell’identità, in un’epoca dove l’immagine è diventata merce di consumo.
Presentato in anteprima alla 81° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Stranger Eyes segue la storia di una giovane coppia, interpretata da Wu Chien-ho e Anicca Panna, che dopo la misteriosa scomparsa della loro figlia Bo, inizia a ricevere strani video che sembrano documentare ogni aspetto della loro vita quotidiana. Con il progressivo accumulo di filmati, si fa sempre più evidente che qualcuno, tra le mura del loro stesso palazzo, li sta osservando maniacalmente. La polizia interviene avviando un’indagine sull’identità del voyeur (interpretato da Lee Kang-sheng), il cui archivio di video rivela una prospettiva inaspettata e disturbante sulla vita dei due genitori.
Il film di Yeo Siew Hua è una riflessione profonda sulla percezione e sull’oggettivazione dell’altro, temi che emergono con inquietante naturalezza in un contesto sociale sempre più ossessionato dall’esposizione della propria immagine. Viviamo in un mondo dove la vista ha preso il sopravvento sugli altri organi di senso, riducendo l’importanza del contatto fisico genuino e diminuendo la nostra capacità di ascolto, creando una società dove l’unico desiderio che sembra rimanere è quello di essere visti.
In questa realtà, le immagini diventano l’unica forma di esistenza riconosciuta: la nostra presenza, la nostra identità, il nostro valore, si definiscono attraverso ciò che gli altri vedono di noi. Ma questa esistenza è estremamente fragile, sottoposta alla continua manipolazione dello sguardo altrui.
Cosa significa esistere come mera immagine da percepire? Si domanda quindi Yeo
Il regista gioca con la dicotomia tra osservato e osservante e in questo scambio, lo sguardo non è mai innocente, passivo, ma si rivela essere uno strumento di controllo, ma anche di perdita di sé. L’immagine di una persona osservata è inevitabilmente distorta dai desideri, dalle paure e dalle proiezioni di chi la guarda, che non si limita a riportare una realtà oggettiva, ma la plasma, la consuma e la restituisce come una realtà alterata.
In questa continua tensione tra realtà e percezione, il regista riflette sulle distorsioni visive e cognitive prodotte dall’iper-connessione e dalla sovraesposizione mediatica. Il film, infatti, non segue l’indagine lineare svolta dalla polizia, ma si sposta continuamente da un personaggio all’altro, chiedendo allo spettatore di decifrare un grande puzzle visivo, dove ogni scena è un frammento di una verità più grande, ma mai completamente raggiungibile.
La struttura narrativa, che gioca con il tempo e lo spazio, mette in crisi ogni certezza. eo frammenta il tempo e cambia continuamente il focus tra i personaggi, imitandone l’ambiguità e la fluidità dello sguardo. Così facendo, ci invita a riflettere sul fatto che ciò che vediamo non è mai tutta la verità. Il mondo, tutto il mondo, non è davvero quello che circoscriviamo con i nostri occhi: ciò che scegliamo di non osservare continua a esistere, sfuggendo al nostro controllo e alla nostra manipolazione
In questo senso, Stranger Eyes, diventa una riflessione sul potere delle immagini e sull’impossibilità di possederle veramente. Mentre l’esigenza di emergere e farsi vedere cresce, il film ci ricorda che l’autenticità delle nostre identità non dipende dallo sguardo dell’altro. Esiste sempre una parte di noi che rimane invisibile, che sfugge agli occhi altrui. E forse è proprio questa parte nascosta a definirci veramente.