Stringimi forte recensione film di Mathieu Amalric con Vicky Krieps, Arieh Worthalter, Vincent Lacoste, Anne-Sophie Bowen-Chatet e Sacha Ardilly
In un racconto popolato da fantasmi vivi e da vivi che cercano di scomparire, è il volto diafano di Clarisse (Vicky Krieps) a dettare i tempi di un dolore che frammenta e mescola impazzito immagini di realtà e sogno. Illusione e verità si elidono a vicenda. In Stringimi forte si compenetrano storie di fughe e assenze.
Un giorno, di prima mattina, Clarisse decide di abbandonare il marito Marc (Arieh Worthalter) e i due figli piccoli fuggendo a bordo della sua vecchia auto rossa. Sembra diretta verso una nuova vita, lontana da affetti e ricordi. E già questo gesto si preannuncia come irreversibile. Ma perché? Cosa si nasconde dietro una scelta tanto estrema quanto incomprensibile?
“Non sono io a essere andata via”. La voice over della solitaria protagonista sembra volersi discolpare. Ma non è così. Clarisse dice soltanto la verità: nulla è come appare.
Cos’è accaduto allora? È la patina gialla che ricopre la prima parte del racconto.
“Non sono io a essere andata via”: un mantra ripetuto sottovoce che è elemento seminale, incipit di un ribaltamento narrativo che rimuove quella stessa patina rivelando la vera natura di Stringimi forte: non un giallo, ma un film sull’amore. Anzi, un film d’amore. Un amore sofferto, frastagliato, fratturato come il montaggio che compone il racconto in un vortice d’immagini, in un tourbillon di volti e di salti spazio-temporali.
È cinema-flusso di coscienza, atto straniante, ma anche scatola magica, fiera delle illusioni: ci si ritrova in un luogo metafisico dove tutto è possibile, dove nulla è mai davvero perduto.
Il cinema come miracolo, dunque. Un miracolo laico che consente a ognuno dei protagonisti di proseguire per la propria strada, di riprendere la propria vita. I figli crescono, il marito invecchia. Clarisse li osserva da un punto nascosto, ne incrocia gli sguardi, parla loro. In qualche modo si instaura un dialogo che impone distanza: così lontano, così vicino. Un wendersiano tentativo di (ri)umanizzazione, di costituzione/restituzione di un corpo. Ora è Clarisse l’artefice delle vite altrui. A lei tocca scrivere un futuro anomalo, tracciare improbabili parabole esistenziali, mescolando vecchie foto, inventando nuove storie. Perché Clarisse ha una missione: rendere vivo ciò che ama spingendolo oltre il tempo e lo spazio.
Viene in mente la Julie del kieslowskiano Tre colori – Film blu. Qualcosa l’accomuna alla nostra protagonista. Non soltanto l’equivalenza delle solitudini. Non la sovrapponibilità delle rispettive malinconie. È il desiderio di emancipazione dal dolore a unirle. La volontà di non essere succubi del proprio destino. A dividerle, tuttavia, è il modo attraverso cui realizzare questo desiderio: Julie sceglie di liberarsi dal male volgendo lo sguardo al futuro, cercando di mettersi alle spalle le proprie tragedie. Clarisse, al contrario, decide di andare avanti portando il suo passato con sé, non rassegnandosi a conservarlo come ricordo, ma sforzandosi di perpetuarlo come elemento del presente.
Non è una storia lineare, non ha una vera trama. Stringimi forte non vuol raccontare, né mostrare. “Sentire”, “far sentire”, questo è il suo scopo: trasmettere allo spettatore le emozioni di Clarisse, condurlo all’interno di un percorso d’inevitabile immedesimazione, spingerlo sino ai limiti dello psicodramma. Riecheggiano le parole del poeta Vittorio Sereni a proposito di coloro che ci hanno lasciati: “Non dubitare – m’investe della sua voce il mare – Parleranno”. Parlano anche qui, non vogliono scomparire, non gli è consentito farlo. È l’epicentro narrativo da cui s’irradiano i pensieri e le azioni di Clarisse. Tutto ruota attorno ai suoi silenzi, alle brevi frasi, agli sguardi perduti lontano. Tutto si raggruma intorno al suo delirio-desiderio di madre e moglie. E la pazzia è a un passo.
Libero adattamento della pièce teatrale Je reviens de loin di Claudine Galea, Stringimi forte è racconto anomalo, opera radicale. Mathieu Amalric dirige il suo ottavo lungometraggio affidandosi ad una struttura narrativa che rifiuta ogni sentimentalismo in favore di un percorso visionario e straniante. È la coraggiosa rinuncia a rassicuranti cliché, la precisa e consapevole scelta di puntare tutto sull’immersività. Una scommessa assolutamente vinta dal talentuoso regista-attore francese anche grazie alla magnetica presenza di Vicky Krieps – recentemente vista in Sull’isola di Bergman – la quale si carica sulle spalle l’intera storia, andando a costituirne al contempo il perno e il motore. L’attrice lussemburghese ripaga la fiducia accordatale con una prova intensa ed empatica che, giocata di sottrazione, valorizza il gesto impercettibile, il velo dello sguardo.
Al resto pensa la sontuosa colonna sonora che, attingendo al repertorio dei grandi classici (da Beethoven a Mozart, passando per Rachmaninov, Debussy, Schonberg, Rameau, Ligeti, Chopin e Ravel), si accorda perfettamente con il racconto andando a sottolinearne con eleganza i toni cangianti e gli stati emotivi.
Il risultato, potente e credibile, è pura, autentica emozione.