Suicide Squad: l’anarchia della malvagità in casa DC Comics tra film e fumetto nel nuovo numero della nostra rubrica Multiverse of MadMass
Al netto di ogni discussione tra fan, la scissione editoriale e di critica tra Marvel Comics e DC Comics è piuttosto netta e al di là di ogni ragionevole dubbio. È vero che è stata innegabilmente la DC a dare il via al concetto di fumetto superomistico, con la sua “trinità profana” composta da Superman (nome di Kal-El – che in ebraico vuol dire vascello di Dio – e nato nel 1933 per mano di Jerry Siegel e Joe Shuster, e pubblicato su Action Comics #1 nel 1938), Batman (nel 1939 sul #27 di Detective Comics) e Wonder Woman (ideata dallo psicologo William Moulton Marston nel 1941, su All Star Comics #8), poi uniti insieme nella prima super-squadra, la Justice League of America (che ha esordito nel 1960 sulla testata The Brave and The Bold #28 per mano di Gardner Fox e Mike Sekowsky, sotto la spinta di Julius Schwartz).
Come è pur vero che però è stata la Marvel, dal 1963 in poi, a dare sostanza psicologica e caratterizzazione tridimensionale al genere: perché (come già detto qui) se in casa DC gli eroi erano e sono dei semidei in cerca di umanità, da mamma Marvel è vero il contrario cioè gli eroi sono umani con poteri divini. Supereroi con super-problemi: è questa formula probabilmente alla base di un successo che dura e cresce da 70 anni.
D’altro canto, se la Marvel Comics ha sempre creato storie vincenti, è stata invece la DC ad ideare alcuni prototipi che in seguito sarebbero stati declinati in varie forme: dall’accezione di supergruppo (abbiamo visto come la JLA anticipa di quattro anni la nascita degli Avengers, avvenuta nel 1964) fino a quello di villain assoluto (Darkseid, creato da Jack Kirby nel 1970 su Superman’s Pal Jimmy Olsen #134 è stato sicuramente di ispirazione per Jim Starlin nel creare il Titano Pazzo su Iron Man #55 del 1973), passando anche per l’intuizione di un gruppo di antieroi protagonisti di avventure: perché se la X-Force, squadra paramilitare nata sulle pagine di New Mutants #100 per opera di Rob Liefeld nel 1992, ha avuto un successo abnorme dando di fatto la stura a tutto un oceano di personaggi oscuri e moralmente ambigui che anticipavano il Nuovo Secolo, l’idea era stata già sviluppata, in nuce, nel 1959, su The Brave and the Bold #25 di Robert Kanigher e Ross Andru (che, forse per caso o forse no, nel 1974 fu il creatore grafico dell’antieroe per eccellenza, il Punisher, su Amazing Spider-Man #129), proprio con la Suicide Squad, costituita da un plotone di soldati della Seconda Guerra Mondiale.
Non tutti i malvagi vengono per nuocere
La prima Squadra Suicida è quindi un gruppo di soldati senza superpoteri che combatte minacce sovrannaturali. Nel team figuravano il colonnello Rick Flag, la sua fidanzata Karin Grace, il Dottor Evans e il soldato James Bright. Quando Evans morirà, i due amanti si lasceranno e Bright verrà rapito dai russi e trasformato nel mostro Koshchei (qualcuno ha detto Winter Soldier?).
Ritroviamo la squadra parecchi anni dopo, nel novembre del 1986, quando la DC per rilanciare i suoi personaggi un anno dopo il maxi evento crossover Crisis on Infinite Earths pubblica una bella miniserie di 6 numeri, scritta da John Ostrander e Len Wein e disegnata da John Byrne, Legends: è sulle pagine di questa storia epocale che la DC Comics tutta cercava un rinnovamento ma soprattutto un ordine narrativo più stabile.
Altra differenza fondamentale con la casa editrice di Captain America risiede anche qui: se la Marvel Comics ha sempre, bene o male, mantenuto una ferrea continuity interna nelle sue storie, facendo si che il flusso narrativo fosse un unicum (in pratica, quello che è successo a Spider-Man sulla sua prima apparizione in Amazing Fantasy #15 nel 1962 fa ancora oggi parte del passato del personaggio), la DC Comics è stata la pioniera degli universi paralleli – concetto nato fumettisticamente su Flash# 123 del 1961, quando fa la sua prima apparizione Terra-Due – ma nello stresso tempo non ha saputo espandere le sue realtà alternative con lo stesso ordine di cui è stata capace la sua rivale.
Infatti, la citata Crisi sulle Terre Infinite (di Marv Wolfman e George Pérez, dodici numeri di catastrofi e apocalissi assolute) doveva essere nelle intenzioni una storia che mettesse ordine ad anni e anni di sovrascritture e nuove Terre nell’universo: così fu solo all’inizio, ma appunto proprio Legends ne raccolse i primi frutti.
In questa storia Ostrander e Wein reinventano la squadra suicida, prendendo un branco di cattivi DC di terza categoria e mandandoli in missioni internazionali per conto del governo statunitense. Nasce qui Amanda Waller, direttrice del carcere Belle Reve e creazione tra le più memorabili di Ostrander, nella storia intitolata Arriva la Squadra Suicidi. Il quadro narrativo viene poi ampliato nella serie omonima Suicide Squad, che debutta nel 1987 sempre con Ostrander ai testi – poi coadiuvato dalla moglie Kim Yale – e Luke McDonnell ai disegni. Nei 66 numeri della testata, Ostrander fonda l’epopea della Squad, il cui nucleo di base è composto da Rick Flag Jr., Bronze Tiger, Captain Boomerang e un personaggio che accentrerà su di sé uno dei punti di interesse dell’intera serie, ovvero Deadshot.
Nato come nemesi di Batman negli anni Cinquanta, era già stato ringalluzzito nel 1977 da Steve Englehart e Marshall Rogers, che gli fornirono un nuovo costume (Detective Comics #474): eppure solo quasi dieci anni dopo Ostrander gli conferisce spessore. Killer brutale e aspirante suicida, è il personaggio più estremo del gruppo e quello su cui convergono gli occhi dei lettori.
Addirittura, in un episodio, quando Batman gli chiede se abbia un qualche codice morale, Deadshot risponde “A che mi serve? Nessuno di quelli che mi ingaggiano ne ha uno”. Il rimando è al suo capo Amanda Waller, personaggio atipico per i fumetti supereroici in quanto donna nera, obesa, bruttarella e senza poteri. Eppure insieme al killer la Waller è la protagonista indiscussa della testata e di gran lunga il carattere più complesso, dovendo tenere insieme la propria personalità e quella degli schizzati che supervisiona e proteggerli dal governo, che li usa per i suoi affari sporchi, e dagli altri supereroi, che contestano la legittimità delle loro azioni. Un unicum oggi, ancora di più all’epoca.
Una squadra che peggiora col tempo
In Suicide Squad, Ostrander inserisce umorismo, complotti politici (senatori americani che tentano di ricattare la Squad), stretta attualità (nel fumetto compaiono Ronald Reagan, Michail Gorbačëv, il Medio Oriente – nei panni del paese fittizio Qurac) e soprattutto il tema portante: il bisogno patologico di potere che ogni personaggio manifesta. Tra le storie migliori: quella in cui un gruppo di terroristi attacca Manhattan (un profetico Suicide Squad #17) o dove scopriamo il passato della Waller e vediamo come è riuscita a diventare la donna che non ha remore a mandare delle persone a morire (Suicide Squad #31).
Il viaggio della prima Squad finisce nel 1992, quando le vendite stagnanti fanno chiudere la serie: i personaggi allora cercano casa in altri fumetti, ma della Squad non si sente più parlare fino al 2002, quando viene riavviata con una miniserie di Keith Giffen e Paco Medina, e poi nel 2007 per mano dello stesso Ostrander e Javi Pina. Storie dimenticabili.
La natura di supercattivi di serie B sacrificabili sembra pesare in senso metaletterario sulla squadra, che i piani editoriali della DC dimentica in un oblio denso fino al 2011, quando il parco testate viene rilanciato per l’ennesima volta, con l’ennesimo reboot, in un ennesimo universo nuovo di zecca, quello dell’iniziativa editoriale The New 52, quando la Squad cambia volto e accoglie tra le proprie fila lo spendibilissimo nome di una vera e propria star del nuovo millennio, Harley Quinn.
Con il team creativo Adam Glass / Federico Dallocchio, la nuova serie vede al centro del progetto Waller, Harley, El Diablo, Re Squalo e Deadshot: nella nuova continuity restaurata dalla DC, è questa l’unica Squadra Suicida mai esistita, levando alle avventure quel respiro internazionale delle origini a favore di una maggiore interrelazione tra i personaggi, a partire da Harley, Deadshot e Joker e di una dose di violenza massiccia. Se quindi da una parte la rappresentazione di un mondo senza morale si accentua, dall’altro nella sostanza avanza la politcally correctness con una Waller imbellettata che perde chili e si trucca perdendo le specificità caratteriali della gestione Ostrander, che erano un po’ il simbolo della Suicide Squad.
Di rilevante, nella versione “moderna”, c’è giusto Harley Quinn: che a dispetto dell’enorme popolarità, è la versione al femminile del Deadpool marvelliano. Fuori dagli schemi logici mentre sfonda la quarta parete, l’ex fidanzata di Joker viene trattata dagli autori come se a scriverla sempre più sfrontata e folle sia un bene: inconsapevoli che invece è il contrario, perché dopo solo qualche anno di vita editoriale la bella Harley è già venuta a noia anche al suo amante (!!!), la nemesi di Batman, che gli ha preferito un’altra killer.
Una serie insomma fuori fuoco: anche nelle vendite, cosa che ha portato la casa editrice a rilanciarla ancora una volta, con il mensile The New Suicide Squad, scritto da Sean Ryan e disegnato da Jeremy Roberts.
Via la Waller, dentro Vic Sage (The Question), ma la sostanza non cambia, perché l’ispirazione sembra ormai volata via.
Ancora una volta, Suicidi
Eppure, nonostante la bella idea di Ostrander sembra sia essersi persa nel tempo, il potenziale per qualche bella storia è sempre in attesa di essere rinnovato. E infatti ecco che arriva Tom Taylor a rimescolare un po’ le carte: il nuovo (…) numero 1 di Suicide Squad vede un nuovo team incaricato di sconfiggere un gruppo di presunti supercriminali, i Rivoluzionari. La missione si rivela più complicata del previsto e al termine della battaglia i sopravvissuti della Task Force X si ritrovano a dover collaborare con i loro nemici agli ordini di un misterioso nuovo capo. Taylor (con Bruno Redondo ai disegni) rifonda il gruppo contrapponendolo ad un team di ex criminali in cerca di redenzione un altro che invece lotta per una causa in cui crede realmente. È una contrapposizione simbolica e psicologica che riesce a mettere in rilievo i punti di forza e le fragilità di ogni personaggio, rendendo il solito Deadshot la figura più umana e complessa del racconto.
Passaggi e Personaggi
Il film messo in cantiere nel 2016 dalla Warner sembra non tenere conto di nessun tipo di personaggio visto nei fumetti: della Suicide Squad rimane allora solo il nome e la missione, assemblando vari antieroi senza un vero nesso narrativo. A dirigere troviamo David Ayer, autore pittoresco e aggressivo, il cui stile di regia sembrava ben associarsi ad una storia che, sulla carta, avrebbe dovuto essere folle e anarchica.
Probabilmente, lo scotto più grande della pellicola è stato quello di uscire sull’onda lunga del successo che al tempo aveva avuto il Deadpool della Fox: un film metalinguistico che giocava con lo spettatore e sfruttava al meglio un personaggio già di per sé trasversale. Se infatti la produzione avesse inseguito di meno le orme lasciate dal mercenario chiacchierone e premuto l’acceleratore di più sulla violenza gratuita e sull’amoralità della mission del gruppo, Suicide Squad avrebbe avuto un altro risultato.
Rimane quindi un film sbagliato e fuori centro, con un ensamble di personaggi messi insieme con una struttura narrativa esile e senza senso: a nessuno dei personaggi è concesso di diventare “persone”, e il risultato è una carnevalata noiosa che non scalfisce neanche l’idea di cinema d’intrattenimento. La presenza di una colonna sonora caotica e persistente contribuisce ad una confusione generale con piani temporali accavallati, montaggio frenetico, scontri assordanti, bruciando tra incoerenza e ridicolo involontario.
Con The Suicide Squad – Missione Suicida, a giudicare dal trailer visto, sembra però beneficiare della “cura James Gunn” e addirittura si avvicina ai toni delle storie firmate da Ostrander.
James Gunn ha già dimostrato di sapere trattare la materia: il suo passato alla Troma fa si che come autore sappia valorizzare la materia supereroistica, evidenziando i tratti vicini all’epos e trattando con goliardia grottesca gli eccessi camp insiti di per sé nel genere.
Il film si annuncia a metà strada fra il reboot e il sequel, lasciandosi alle spalle quanto basta del primo, dimenticabile capitolo e portando con sé solo quattro dei personaggi già visti, ovvero l’irrinunciabile Harley Quinn di Margot Robbie, l’Amanda Waller della meravigliosa Viola Davis, Rick Flag e Capitan Boomerang. Il resto viene dal materiale cartaceo e sembra davvero esplosivo, a partire dalle new entry.
Idris Elba è Bloodsport, creato nel 1997 come villain di Superman; John Cena è Peacemaker, uno psicopatico disposto a tutto per ottenere la grazia, destinato ad uno spinoff tutto suo sempre ad opera di Gunn; King Shark (cattivo ricorrente nel serial tv di Flash) è invece già il personaggio cult del film, con la voce di Sylvester Stallone e le sembianze di un enorme squalo bianco antropomorfo violentissimo e senza freni; Peter Capaldi è Thinker, e nella sua apparizione più nota viene anche lui da Flash; Starro è poi il primissimo avversario della JLA apparso nel leggendario #28 di The Brave and the Bold.
Una carrellata niente male che promette benissimo, e se il buongiorno si vede dal mattino magari è la volta buona che, sull’onda del successo riscosso dalla Zack Snyder’s Justice League, anche la Suicide Squad abbia il successo che merita e magari anche una testata degna di questo nome.