Sylvester Stallone e la saga di Rocky: il diario di un uomo tra realtà e finzione e il combattimento per costruire il proprio destino da star di Hollywood
Da sempre i blockbuster hollywoodiani vengono accusati, molto spesso giustamente, di essere prodotti usa e getta, film in cui i divi vengono sfruttati con l’unico fine di strappare i biglietti e di creare un intrattenimento in cui non vi è la minima personalizzazione da parte di chi lavora dietro e davanti la macchina da presa. Qualcuno, però, è riuscito nell’impresa di mandare KO questa realtà attraverso un lungo percorso, che a guardarlo oggi è un vero e proprio diario di un uomo.
È il 1975 e uno squattrinato si presenta agli studi della United Artist, dice di chiamarsi Sylvester Stallone e si propone come attore; appena prima di concludere il suo provino dice anche di aver scritto qualche sceneggiatura. I due produttori, Irwin Winkler e Robert Chartoff, molto incuriositi, lo invitano a portarne qualcuna. Sylvester decide di portare il suo ultimo lavoro: una sceneggiatura scritta in due giorni e mezzo che parla di un pugile perdente. I produttori restano folgorati.
La pre-produzione e le riprese di Rocky sono molto difficili, il cast si compone piano piano e il budget che la United Artist investe è di 950mila dollari: pochi, ma a Stallone e al regista John Avildsen possono bastare. Ma perché quel ragazzo italoamericano tiene tanto ad essere il protagonista del film? Perché, nonostante abbia l’automobile rotta ed un conto in banca di 103 dollari, non vende quella sceneggiatura? Stallone fin da subito vede se stesso in quel pugile: Rocky è un escluso, un ultimo della società, uno che non ha mai avuto quella possibilità che forse meritava, e così si sente anche il suo ideatore. Quella possibilità arriva inaspettatamente: Rocky è chiamato a combattere contro il campione dei pesi massimi, Apollo Creed, e Sly (così verrà soprannominato Stallone da qui in poi) può recitare un vero ruolo cinematografico.
Gli elementi di unione non finiscono qui: gli abiti che indossa il personaggio nel film sono quelli della persona fuori dal set, le strade di Philadelphia che percorre Rocky sono quelle che Stallone percorre ogni giorno; la chiave di questo elemento si trova in una delle prime sequenze del film: Rocky torna a casa vincitore dopo un piccolo incontro, guarda la sua immagine riflessa nello specchio ed afferra una fotografia che ritrae se stesso (il vero Stallone) da bambino; è come se in quel momento ci fosse solo l’interprete – e non il personaggio – in scena che guarda nel suo passato e riflette sulla sua vita. Sia Sly sia Rocky vogliono dimostrare di non essere soltanto “bulli di periferia” e il combattimento è contro loro stessi.
Il successo porta all’idea di un sequel e il parallelo tra i due continua. In questa seconda avventura entrambi hanno il loro destino in mano: così come Rocky deve dimostrare che l’incontro con Apollo non è stato solo fortuna, Stallone deve dimostrare di non essere solo una meteora di Hollywood, infatti per l’occasione si siede anche dietro la macchina da presa. In Rocky II il protagonista diventa finalmente il campione dei pesi massimi e Stallone diventa un vero divo, dato anche l’enorme incasso anche di questo secondo film (è il secondo miglior incasso in USA del 1979).
“Nei primi tempi da star ero un idiota in paradiso. […] Improvvisamente sono passato dall’essere uno sconosciuto, ad uno dei vincitori della serata degli Oscar […] il successo mi ha fatto girare la testa, avevo perso tutto il buonsenso che avevo, avevo iniziato a fare il playboy in giro, stavo perdendo tutte le persone a cui tenevo e tutti i punti di forza che avevo sviluppato e che mi avevano portato fin lì dov’ero arrivato.” Parola di Stallone. È proprio grazie a questa condizione che nasce Rocky III, Sly si sente cambiato e vuole lavare via questi peccati riportando in scena il suo alter ego cinematografico. Non a caso, nella prima parte della pellicola anche Rocky è spocchioso ed arrogante, l’opposto di quello che il pubblico aveva conosciuto nei primi due film. Molto simbolica è la scena in cui Rocky guarda con occhi di odio la statua che lo raffigura e gli lancia contro il casco della moto: schifa quello che è diventato per via del denaro e del successo. L’unico modo per riaccendere in lui gli occhi della tigre è tornare nei bassifondi e riflettere su se stesso. Non a caso, 1982 è l’anno di uscita dell’altro grande personaggio di Stallone, anche lui un ultimo ed escluso della società: Rambo.
Il 1985 è l’anno di Rocky IV, che rappresenta un unicum nella saga: il legame tra persona e personaggio viene meno in una storia in cui il pugile diventa una sorta di paciere tra USA e URSS in piena guerra fredda. Grazie anche allo storico cattivo Ivan Drago, il film diventa il maggiore incasso nella saga dello stallone italiano e diviene una delle icone del cinema muscolare degli anni ’80. Nel frattempo, però, arriva Rambo III che è il primo vero flop della carriera di Stallone e da quel momento comincia il suo declino. Sly sente di dover cambiare rotta e decide di chiudere la saga del pugile di Philadelphia; la prima sceneggiatura di Rocky V, infatti, prevedeva la morte di Rocky tra le braccia della sua Adriana ma la produzione vieta completamente quel finale. Come nella realtà Stallone comincia a non andare così tanto di moda, nel film Rocky perde tutto ed è costretto a ricominciare la propria vita nel vecchio quartiere. Viene richiamato anche Avildsen alla regia per cercare di creare la magia del primo film ma il meccanismo non funziona e la pellicola si rivela essere un disastro sia di pubblico sia di critica, un anticipo di quello che saranno gli anni ’90 per Sly. Lo specchio tra i due funziona dunque anche quando tutto va male.
Siamo ormai nella metà degli anni 2000 ma Stallone sente di avere ancora qualcosa da dire con il suo personaggio prediletto. Paradossalmente, la lotta con i produttori sembra quello del primo film: nessuno crede in lui ed è costretto a lottare contro tutti per portare in scena la sua nuova idea. Fortunatamente i finanziamenti arrivano e nel 2006 esce Rocky Balboa. Sly decide di chiudere degnamente questa saga anche se tutti i fattori sono contro di lui: il flop del film precedente, l’età avanzata e un pubblico che ormai sembra essersi dimenticato del suo personaggio. Tutte queste sensazioni si ritrovano nel film nel momento in cui a Rocky viene data la possibilità di salire di nuovo sul ring, nessuno crede in lui e il fatto che un uomo di 60 anni possa boxare contro il campione dei pesi massimi viene trovato ridicolo. Rocky e Stallone resistono, combattono e superano di nuovo le aspettative: il primo stupisce il mondo intero riuscendo ad arrivare fino alla fine dell’incontro, mentre il secondo convince critica e pubblico con un sesto capitolo sorprendentemente amaro e che fotografa perfettamente quell’indissolubile rapporto tra personaggio ed interprete.
Questo lungo rapporto, durato quattro decenni e che tutt’ora continua con gli spin-off Creed e Creed II, è unico nel panorama mainstream hollywoodiano ed è testimone, nonostante gli alti e bassi di una lunga carriera, di come il cinema sappia essere una sorta di autoanalisi psicologica.
Andrea P.