Taxi Monamour recensione film di Ciro De Caro con Rosa Palasciano, Yeva Sai, Valerio di Benedetto, Ivan Castiglione e Matteo Quinzi [Venezia 81]
Perché siamo due destini che si uniscono
stretti in un istante solo
che segnano un percorso profondissimo dentro di loro
superando quegli ostacoli
che la vita non ci insegna
solo per cercare di essere più veri
per guardare ancora fuori
per non sentirci soli
Non è dato sapere se Ciro De Caro e Rosa Palasciano abbiano ascoltato a ripetizione il celebre brano dei Tiromancino nella loro writer’s room lavorando alla sceneggiatura di Taxi Monamour. È difficile però non sentir risuonare questi riferimenti nello svelarsi delle solitudini di Anna e Nadia/Cristi (Yeva Sai) prima e dopo il loro contatto.
L’istante che le unisce, e che dà il nome al film, è la necessità di accettare un passaggio da due sconosciuti per affrontare un imprevisto, sebbene non insolito, sciopero in una Roma vagamente anonima. La paura non può fermare il destino, soprattutto quando gli elementi di un composto iniziano a reagire.
Ognuna si presenta a questo non-appuntamento con un carico di problemi differenti e vite travagliate dalla guerra e dalla malattia. Corpi disidratati, alla ricerca disperata di una qualsiasi goccia d’acqua che possa restituire un minimo di autonomia, si gettano in silenzio ma a capofitto su una sorgente comparsa all’improvviso
Per fortuna non c’è esaltazione o esagerazione drammatica nel tentativo di appesantire una storia che conserva una certa naturalezza anche quando la narrazione sembra perdere il controllo sull’emotività. Ci sono inneschi che si rivelano soltanto fuochi di paglia, episodi che sembrano ingiustificati, anche se visti come manifestazioni di una vita scossa da un improvviso sussulto.
Taxi Monamour (in concorso alle Giornate degli Autori all’81° Festival Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia) parla di un incontro che attecchisce nella disperazione, o forse proprio a causa di essa.
Sembra una versione in miniatura del film di Jon Voight Un uomo da marciapiede, che può essere visto più come un nume tutelare che un paragone ingombrante. La delicatezza e la malinconia dei due film sono simili, pur se calati in contesti radicalmente diversi. Perché, a volte, nel perimetro della solitudine si possono trovare relazioni intense, in cui farsi forza a vicenda, proprio come nella vignetta di Maicol & Mirco dove due personaggi soli si chiedono se è possibile rimanere soli insieme.