The Crow – Il Corvo recensione film di Rupert Sanders con Bill Skarsgård, FKA twigs e Danny Huston
Da qualche anno ormai, film sentimentali vagano su diverse piattaforme portando a casa incassi esorbitanti. Spesso sono tratti da romanzi rispolverati, che per qualche ragione sconosciuta diventano primi in classifica nelle librerie.
Fabbricante di lacrime (Alessandro Genovesi, 2024) è uno degli esempi recenti. Per più di una settimana numero 1 tra i film più visti su Netflix. E l’attore principale inondato da un successo clamoroso, tra i più cercati sui social.
Tuttavia, la storia è sempre uguale: un amore tormentato, oscuro come i suoi protagonisti che superano ogni avversità, continuamente ostacolati nella loro relazione ma sempre con il lieto fine in cui l’amore vince sempre. Stessa sorte per il reboot fallimentare di The Crow – Il Corvo, ben lontano dal noto cult movie del 1994 di Alex Proyas basato sull’omonimo fumetto di James O’Barr.
Guardando il film, viene da pensare che Rupert Sanders (Ghost in the Shell, 2017) abbia cercato di cavalcare l’onda dell’amore adolescenziale, inserendo qualche effetto speciale qua e là, un attore famoso per il suo viso espressivo che terrorizza i bambini in It (Andy Muschietti, 2017), il trucco che lo rende il Pennywise impeccabile di Stephen King con qualche nota del Joker senza colori ma nero come la pece. E il gioco è fatto. Peccato che di dark, di quell’ombra tanto attesa, non ci sia nulla. O forse, a dirla tutta, di nero si tinge il velo pietoso che si stende sul nuovo The Crow – Il Corvo. Via le atmosfere cupe anni ’90 per lasciare spazio a un abisso vertiginoso.
Rilanciare in chiave moderna una leggenda del cinema, che ancora oggi mette i brividi solo a pensare alla fine tragica di Brandon Lee sul set non è cosa da poco. Tuttavia, una linea guida è necessaria: riportare in vita dall’al di là Eric Draven (Bill Skarsgård) per vendicare la fidanzata brutalmente uccisa è già ampiamente conosciuto. Piuttosto, Rupert Sanders doveva resuscitare il mito di Brandon Lee, rendergli omaggio con la pellicola che l’ha glorificato nel suo epilogo, e invece preferisce il baratro di cui una fine invece non c’è.
Sceglie di creare una storia da capo con elementi presi dal buon e brillante The Crow (1994) inserendoli in una narrazione troppo romanzata, a tratti troppo melensa per chi ricorda quell’aurea nera dipinta da Alex Proyas.
Per non parlare, inoltre, di Bill Skarsgård e FKA twigs ‒ i nuovi Hardin Scott e Tessa Young di After catapultati in un mondo buio e desolato ‒ tratteggiati come due adolescenti con gli ormoni in subbuglio che vivono l’uno per l’altro senza sapere nulla del loro passato.
Chi è Eric? Perché un ragazzo solitario, taciturno, pieno di cicatrici ‒ non solo sul corpo muscoloso ‒ e tatuaggi a un certo punto ritrova la parola e decide di fuggire insieme a Shelly (FKA twigs) risvegliandolo dal sonno profondo della sua infanzia travagliata? È la sensualità femminile che distoglie l’uomo deponendo le armi dei suoi incubi?
The Crow – Il Corvo di Rupert Sanders ha una genesi propria. Il regista di Biancaneve e il Cacciatore (2012) ha messo le mani su un capolavoro degli anni ’90, ha calpestato la storia mitizzata e l’ha fatta sua. In che modo? Prendendo gli stessi protagonisti, riscrivendo buona parte della trama di partenza, aggiungendo nuovi personaggi mescolandoli al patto col diavolo ‒ rivive Dorian Gray, più vecchio che alla bellezza innata sostituisce la morte di innocenti ‒ e un nuovo racconto è creato.
Tra vita e morte, con scene in stile John Wick, in cui Eric colpisce per la sua natura quasi vampirica ‒ a immagine e somiglianza del celeberrimo Edward Cullen, che aveva mandato in tilt tante teenagers ‒ e frame da horror mediocre, The Crow – Il Corvo si circonda di tenebrosa vanità in cui vige la regola: Il vero amore non muore mai.
Ahimè, Il Corvo di Rupert Sanders è morto. Era meglio restare agli antichi albori, intensi e intramontabili.