The Eternal Daughter recensione film di Joanna Hogg con Tilda Swinton, Joseph Mydell, Carly-Sophia Davies, Alfie Sankey-Green e Zinnia Davies-Cooke
Georgi Gospodinov immagina nel suo Cronorifugio che qualcuno sia stato in grado di costruire una clinica del passato in cui la gente che ha perso la memoria può riappropriarsi dei propri ricordi. Si tratta di strutture in cui rivivere momenti storici andati perduti attraverso uno shock spaziale e cronologico, ricucendo brandelli di memoria e rimuovendo i detriti lasciati dalla realizzazione di futuri passati.
Joanna Hogg trova in un’antica dimora di famiglia, diventata un cupo e misterioso hotel, la clinica perfetta in cui immergere una magnifica Tilda Swinton per riflettere sul rapporto di una madre con la propria figlia. È l’attrice britannica, senza velleitari filtri, a ricoprire entrambi ruoli, giocando con le interferenze che si verificano tra gli estremi di un legame tanto misterioso quanto primitivo. L’albergo è grande, vuoto, spettrale ma c’è un fastidioso rumore ambientale che aleggia nell’aria. È la memoria che trasuda dall’austerità delle stanze vuote e fluisce nella disperata ricerca interiore che Julie conduce su sua madre Rosalind.
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The Eternal Daughter sceglie di affrontare questi fantasmi evocandoli nel loro territorio più congeniale. Un remoto angolo di Galles, con notti popolate di fitte nebbie e vento sferzante, simboleggia la necessità di ripristinare i contorni della propria vita affrontando le questioni in sospeso che erodono il presente. La realtà presenta diverse fratture scomposte, come ricorda la fotografia del film e la pellicola su cui è stata impressa, e sanarle richiede un soggiorno d’urto con le proprie ansie.
Ci sono diversi tempi che si sovrappongono in questa stazione di scambio familiare e se alcuni sono precisi e comprensibili, altri si rivelano solo con pazienza e parsimonia. Si compiono nei cambiamenti che si abbattono sul volto di Rosalind. Prima che il mistero si riveli e le tenebre lascino il posto alla luce, bisogna riflettere sulla modalità con cui ognuno di noi si differenzia e si perde nelle figure che ci hanno generato, dovendo spesso accontentarsi di briciole e frammenti per trovare un equilibrio.
Il referto, al termine della degenza, è impietoso: non ci sono cure e non si prevede che ce ne saranno di efficaci in futuro. Il trattamento di Gospodinov continua ad essere il più efficace in quanto senza alternative. Rimarremo figli e figli per sempre, a immagine e somiglianza di qualcuno che non abbiamo conosciuto per intero prima di averlo perduto.