The Eyes of Tammy Faye recensione film di Michael Showalter con Jessica Chastain, Andrew Garfield, Cherry Jones, Vincent D’Onofrio e Sam Jaeger
Di biopic ne abbiamo visti tanti. Anzi, negli ultimi anni l’adattamento cinematografico di “storie vere” ha invaso festival, multisala, televisione pubblica e privata, ma anche i servizi streaming. E non è un caso, forse, se la 16° edizione della Festa del Cinema di Roma si è aperta con The Eyes of Tammy Faye, una pellicola biografica che ripercorre la carriera televisiva della famosa (almeno negli Stati Uniti) coppia di predicatori Jim Bakker e, appunto, Tammy Faye. Senza aggiungere o togliere nulla alla formula già rodata del genere, il film diretto da Michael Showalter con protagonisti Jessica Chastain, Andrew Garfield e Vincent D’Onofrio riesce nel suo intento, ovvero raccontare in modo accattivante una storia ai più sconosciuta. Tuttavia, manca quella spinta che gli permetta di spiccare e aprire con un rombo di tuono la Festa. Ma scendiamo più nel dettaglio.
Come già accennato, la narrazione di The Eyes of Tammy Faye segue l’ascesa e il declino della famosa coppia di telepredicatori evangelisti che tra gli anni ’70 e gli anni ’80 hanno dato vita a uno dei più grandi network televisivi incentrati su tematiche religiose mai esistiti. Il film, come ogni biopic che si rispetti, va ben oltre le luci di scena e l’alta dose di cerone, spingendosi nella vita burrascosa di Tammy (Jessica Chastain) e Jim (Andrew Garfield), mostrando degli aspetti della loro esistenza che solo superficialmente riuscivano a trapelare dallo schermo televisivo. Dai tradimenti extraconiugali, all’abuso di farmaci, fino a un divario che raggiunge la soglia dell’ideologia.
Showalter ha deciso di raccontare questa graduale “caduta negli inferi” partendo proprio dalla gioventù di Tammy, fino all’incontro adolescenziale con Jim e alla successiva “chiamata” che li ha spinti a mettersi in viaggio per l’America, predicando un po’ dove capitava fino alla vera svolta che li ha condotti sulla strada della televisione. Questi sono anni caratterizzati da una gioia continua, quasi ostentata, che porta entrambi i personaggi sotto una luce di costante pace ed estasi. Dato che ci vengono presentati in tale modo, la situazione inizia a stridere (in senso buono) quando emergono i primi demoni di entrambi, decisamente corrotti dal successo.
In questo The Eyes of Tammy Faye riesce a colpire nel segno, proponendo una compressione sempre più marcata dei personaggi fino a portarli al punto di usura, dopo il quale l’interpretazione della Chastain e di Garfield si spogliano delle impalcature di pacatezza e cortesia portate per gran parte del film (a volte anche “fuori onda”) e sprigionano una forza espressiva in grado di mettere tutti gli altri elementi della pellicola in secondo piano.
Ciò non significa che The Eyes of Tammy Faye sia per la maggior parte del tempo guidato dal lato tecnico. Anzi, il film punta molto (se non tutto) sulle performance attoriali, dando grande risalto a queste ultime, piuttosto che a vizi registici che lasciano il tempo che trovano. Solo in un paio di momenti la regia si mette evidentemente in mostra. Per il resto, la messa in scena è un contorno (molto curato, va detto) che esalta le (perlopiù) ottime interpretazioni. Solitamente, quando bisogna portare su schermo personaggi realmente esistiti si seguono due vie: o si lascia l’impatto della somiglianza alla sola e unica performance attoriale (senza alcuna ricerca del camaleontismo), oppure si punta tutto sull’effetto “sosia”. In questo caso, è la seconda opzione la vincitrice (cosa sottolineata dalla comparazione finale con i veri protagonisti della vicenda), grazie soprattutto all’intenso e non scontato lavoro dei reparti di prostetica e trucco.
Nonostante la direzione “negativa” delle vicende, la pellicola conserva comunque quella leggerezza e quell’innocenza che troviamo fin dai titoli di testa. La fede, la speranza, l’inclusione e la compassione sono costanti che non vengono mai dimenticate e che scandiscono l’agrodolce esistenza di Tammy Faye, una donna che, in definitiva, era solo alla ricerca di un po’ di felicità. Quello strato appariscente, quella voglia di esibirsi per il solo gusto di farlo sembrano non essere altro che un modo per sentirsi riconosciuta come persona, forse proprio per quella “colpa” che da piccola pendeva su di lei, ovvero l’essere figlia di una madre un po’ libertina che ha cercato di nascondere il passato risposandosi (cosa che non ha assolutamente portato a una separazione del nucleo famigliare, come accaduto in molte altre vicende che hanno invaso il panorama cinematografico sin dalle sue origini). Ogni cosa fatta per gli altri sembra un modo per avvicinare più individui possibile alla sua persona, così da evitare di diventare un’emarginata; ogni preghiera le dona sollievo perché le porge anche un po’ di compagnia. In ultima analisi, Tammy Faye ha l’impellente desiderio di farsi notare perché non vuole rimanere sola. Ma quando il tuo volto appare ventiquattro ore al giorno su un canale televisivo satellitare, è difficile sparire nell’ombra.