The Falcon and The Winter Soldier: un Captain America per ogni stagione: spiegazione della serie TV e origini dei personaggi tra fumetti e schermo
Non c’é niente da fare: i Marvel Studios creano attenzione anche quando non vogliono, anche quando accade l’imprevisto, anche quando si sovvertono le previsioni.
The Falcon and The Winter Soldier doveva essere il primo serial prodotto all’interno dell’MCU: l’emergenza COVID-19 lo ha fatto slittare subito dopo WandaVision, che é quindi partito prima anche se i visual effects non erano completati (conseguentemente, l’ultimo episodio ha avuto degli aggiustamenti di trama in corso, come la risoluzione del mistero sul personaggio interpretato da Evan Peters o quello sul coniglio demone di Agatha Harkness).
Nonostante questo, anzi proprio per questo, The Falcon and The Winter Soldier era attesissimo, con una hype tale da far si che la prima puntata, rilasciata il 19 marzo 2021, è stato lo show di debutto su Disney+ più visto in assoluto.
Un’attesa ripagata, anche se non per tutti: sarà rimasto deluso chi attendeva qualcosa di simile a WandaVision, pur essendo questo nuovo serial un grandissimo prodotto.
Take The Shield Back (#TakeTheShieldBack)
TakeTheShieldBack era l’hashtag diffuso dai fumetti Sam Wilson Captain America e Captain America, entrambi scritti da Nick Spencer, autore politico e intenso, che ha lavorato sulla testata dello scudiero per un po’ di anni (ri)portando a galla la natura fortemente politica della serie, che già negli anni 70 e 80, con Steve Englehart prima e Mark Gruenwald poi, aveva fatto del buon capitano un simbolo – non solo e non tanto di democrazia, quanto – di una messa in discussione di tipologie di potere politico deviate e non libertarie.
E’ proprio con Spencer che Steve Rogers, tornato fisicamente alla sua vera età di ultraottantenne, ha deciso di donare lo scudo a Sam Wilson, che diventava in questo modo il primo Capitan America di colore (forse tecnicamente non proprio il primo, ma quello più noto… ma di questo parleremo dopo); ma questa è solo la punta dell’iceberg delle rivoluzioni raccontate da Spencer, che andavano da Capitan America affiliato all’Hydra a Sam Wilson che veniva osteggiato dal governo per il colore della sua pelle, fino al Teschio Rosso che riesce a portare Cap a diventare Capo di un governo fascista.
Ad ogni modo, è proprio da qua che parte l’ispirazione di The Falcon and The Winter Soldier: che si apre proprio con due focus, uno su Wilson e uno su Bucky Barnes.
Il primo alle prese con i gravi problemi economici della sorella vedova, mentre tenta inutilmente di farle ottenere un mutuo dalla banca; il secondo in psicoterapia, dovendo superare i traumi portati dai ricordi del passato come killer sotto condizionamento russo.
Cosa piu importante è vedere che entrambi sono davanti ad un passo importante: l’accettazione della scomparsa di Capitan America. Così come WandaVision era una lunga elaborazione del lutto, The Falcon and The Winter Soldier costituisce l’accettazione della perdita.
La perdita, oltre che di una persona cara, anche di un simbolo, di un valore morale, di un confine etico: “i simboli sono niente senza gli uomini che danno loro significato”, dice Sam Wilson in apertura di racconto. Un racconto che ha un prologo in grande stile: la prima puntata si apre, prima dei titoli, con uno stupefacente (dal punto di vista visivo) inseguimento in aria. Una messa in scena da blockbuster – non dimentichiamo che ogni episodio delle serie Marvel ha un budget paragonabile ad un film low budget -, che non dà reale contezza del tono che invece lo show avrà.
Perché se subito dopo vediamo i due alle prese con i problemi personali visti poco fa, proseguendo nella seconda puntata vediamo che il racconto si sporca subito le mani parlando di questioni razziali, tematica sempre purtroppo molto – troppo – attuale negli Stati Uniti, ma figlia di venti liberticidi che soffiano anche nella vecchia Europa.
Ed è proprio nella seconda puntata che incontriamo due personaggi fondamentali, uno dal punto di vista narrativo, l’altro da quello tematico.
Il primo è Elijah Bradley, che nei fumetti veste i panni di Patriot, leader degli Young Avengers, gruppo che probabilmente prenderà il posto, sullo schermo, del primo team ormai dissolto (e composto da Cassie Lang, figlia di Ant-Man; Kate Bishop, discepola di Hawkeye; William e Thomas, figli di Scarlet Witch, tutti presenti all’appello, ormai). Il secondo è invece suo nonno, Isaiah, che sempre nelle pagine degli spillati Marvel Comics si scopre in tempi recenti essere il primo Captain America, o meglio il primo uomo ad avere ricevuto il siero del supersoldato.
E che è anche di colore. Per l’esattezza, Isaiah viene introdotto nell’era moderna attraverso un’operazione di retcon (ovvero, rettifica a posteriori della continuity), nel volume Captain America: Truth.
Lungo le strade di un’America a brandelli
È nel 1972 che la testata Captain America, come già accennato, entra nel suo vivo per la prima volta: è il giovane Steve Englehart che succede all’acerbo Gary Friedrich il quale aveva solo arricchito il cast di comprimari.
Ed è quindi Englehart che introduce le prime avvisaglie dei cortocircuiti morali ed umani che caratterizzeranno la testata negli anni a venire: le tavole sono un tripudio, e passano da Kirby a Gene Colan fino a John Romita Sr.
Solo con Sal Buscema però il mensile trova una sua regolarità di segno, non rivoluzionario e neanche particolarmente facile, il tratto del fratello del più noto John riesce però a centrare alla perfezione le atmosfere ruvide e spigolose nelle trame dell’autore.
E probabilmente solo lui, all’epoca, avrebbe potuto descrivere i tormenti dell’uomo che si legavano ai tormenti del soldato, la maschera che nascondeva il dolore, e le sofferenze di chi per fare i conti con il proprio passato deve lottare all’ultimo sangue con il suo alter ego.
Sono le storie (con la testata che porta anche il nome di Falcon nel titolo) che portano all’improvviso la sentinella della libertà nei tumultuosi anni ’70: Englehart resterà sulla testata per ben quattro anni, decretandone il successo, legando il suo nome e quello della Marvel a storie ancora oggi efficaci e appassionanti raccontando dei tumulti razziali per le strade di New York, dello scandalo Watergate sotto mentite spoglie, o ancora il redivivo Capitan America degli anni ’50 editorialmente pubblicato dalla Atlas che negli albi Marvel diventa un… altro Cap; arrivando ad una delle saghe più importanti dal punto di vista narrativo, ovvero la leggendaria saga di Nomad, nella quale Steve Rogers abbandona il costume per divergenze con lo Stato americano e decide di chiamarsi Nomad.
Facendo un balzo in avanti, negli anni 80, nella lunghissima, acclamata gestione di Mark Gruenwald, Captain America attraversò in lungo e in largo gli Stati Uniti, affrontandone le contraddizioni e le difficoltà, toccando con mano la provincia e vivendo in prima persone i suoi dolori.
Il Cap di Gruenwald è l’incarnazione del Sogno Americano, capace di affermarsi e superare ogni difficoltà con le proprie forze esprimendo il proprio potenziale. Non per niente, in questi mesi Steve Rogers appare poco e niente, mettendo in chiaro che probabilmente (in un percorso psicologico similare a quello di Batman/Bruce Wayne, di cui Cap rappresenta l’esatto riflesso, lo specchio oscuro) la maschera indossata è proprio quella di Rogers, e l’identità è quella di Cap.
Il profilo è quello del blockbuster: poca psicologia, molto approfondimento politico, tanta azione e soprattutto una marea di new entry che faranno la storia del Discobolo più famoso dei fumetti: Crossbones, Diamante, lo Spezzabandiera, la Squadra dei Serpenti, la milizia di estrema destra dei Cani da Guardia, John Walker (poi U.S. Agent), sono alcuni dei tantissimi personaggi creati dal buon Mark che ancora oggi hanno un peso nelle trame della testata, e che addirittura sono diventati parte fondante della mitologia di Capitan America.
Che con Gruenwald vive una vera e propria rinascita, chiarendo il suo posto e il suo senso nel Marvel Universe: non solo con tutta l’azione condensata nelle pagine, non solo con le preoccupazioni dell’autore che si riflettono nelle storie, ma anche e soprattutto nelle luci e ombre del Sogno Americano che fanno vivere all’eroe drammi come quello del Nuovo Captain America (dove fa la sua apparizione anche pe la prima volta U.S. Agent ovvero John Walker, insieme al suo sidekick di colore), o la bellissima saga Streets of Poison.
È proprio con Gruenwald, infine, che Captain America assume quella identità autoriale definitiva che lo contraddistinguerà negli anni a venire: continuando con il suo immediato successore, Mark Waid, e fino a Ed Brubaker e Spencer.
Autore con il quale Steve ringiovanisce, ma il giovane eroe alato continua a portare lo scudo (nonostante il trend topic #TakeTheShieldBack), battendosi contro il traffico di immigrati, la società dei serpenti trasformata in corporazione quasi intoccabile, la repressione poliziesca delle comunità nere.
E mentre Spencer usa benissimo l’equilibrio tra azione e dramma, usando anche intermezzi esilaranti – dove si strizza l’occhio all’improbabile Cap-Wolf di gruenwaldiana memoria -, ai pennelli Daniel Acuña compie un lavoro meticoloso e, come già in altre sue prove precedenti, si dedica in particolare alla cura dell’espressività dei volti, risultando ugualmente convincente nella colorazione.
Un eroe per fumetti e TV
Il cambiamento è alla base dei rapporti umani. Il cambiamento regola qualunque tipo di forma vivente o istituzione, abbraccia la cultura e la politica, la società e i singoli individui. E il cambiamento è alla base culturale ed editoriale della Marvel. La Marvel è cambiata radicalmente, dalle sue origini: e specialmente negli ultimi dieci anni, ha affrontato cambiamenti vertiginosi nel giro di pochissimi mesi.
In particolare, il Marvel NOW! ha vissuto cambiamenti e rivoluzioni sostanziali, in un percorso di avvicinamento alla realtà differenziata tra etnie e gender. La gestione di Nick Spencer di cui abbiamo parlato poco fa è stata probabilmente una delle più rivoluzionarie dell’intero piano editoriale, così come Capitan America è l’eroe più rappresentativo e sentito del popolo americano, trascendendo quindi i limiti di un eroe di carta e diventando un simbolo sociale e culturale, conseguentemente incarnando inevitabilmente tutte le contraddizioni del popolo che rappresenta e tutte le diversità dalle altre culture.
In tutto questo, le traversie moderne di Steve Rogers, diventato Capo Supremo dell’Hydra, tra alti e bassi hanno colto nel segno: rivoluzionato lo status quo della Casa delle Idee.
Axel Alonso, editor della Marvel fino al 2017 (anno in cui è subentrato C.B. Cebulski), ha operato scelte radicali e per alcuni ha snaturato lo spirito originale degli eroi che compongono l’immaginario creato da Stan Lee e oramai divenuto un vero e proprio epos moderno anche grazie ai film su grande schermo.
Ma la Marvel di Alonso non ha fatto altro che fare del cambiamento la sua filosofia principale, amalgamandosi spesso e volentieri con l’attualità e concependo giustamente il fumetto americano come un riflesso della realtà sociale in cui versa il popolo americano, a prescindere da tutte le guerre cosmiche e invasioni aliene del caso. Non per nulla, i tre principali maxi-eventi di quel periodo sono stati incentrati su Cap, e sono stati Pleasant Hill, Civil War II e Secret Empire.
Tre macro storie che hanno giocato, mettendo Steve Rogers e Sam Wilson nel mezzo, sulla dicotomia tra bene e male applicato al metodo della giustizia preventiva.
Secret Empire, nello specifico, ha nella politica il suo snodo centrale, con il Cap Hydra che prende il controllo del governo e lo assoggetta alla presa nazista. Spencer, Alonso e gli altri hanno imbastito un crudele e distopico ritratto di una realtà volontariamente piegata al suo aguzzino, insomma un mondo fittizio ma che strizza l’occhio all’attualità reale, dove in Europa e in America soffiano preoccupanti venti totalitari, dove la propaganda e i mass media trasformano spietati assolutisti in brillanti signori affascinanti.
Tratteggiando quindi un popolo (non più statunitense, ma mondiale) senza più punti di riferimento, senza più eroi, asservito alla crudeltà e alla follia.
A conti fatti, la gestione di Spencer ha lasciato un immaginario altamente suggestivo, una riscrittura lodevole e segnante di Capitan America: perché Spencer ha avuto il coraggio di ribaltare un’icona, lanciandosi in una profonda riflessione sul Sogno Americano.
Ha ancora senso parlare di Sogno? L’idea fondante di democrazia tra le più influenti del pianeta (quella statunitense) è ancora valida o risulta superata dagli avvenimenti che ogni giorno mettono in discussione il messaggio dei Padri Fondatori?
The Falcon and The Winter Soldier approccia l’argomento, delicato e sottile, con intelligenza, riuscendo ad ampliare il raggio d’azione delle implicazioni dei fumetti, ponendo domande importanti allo spettatore e introducendo abilmente tematiche e suggestioni particolarmente importanti.
È molto interessante vedere come tratteranno alcuni dei personaggi più politici dell’universo Marvel di Cap: dallo Spezzabandiera (in originale Flag Smasher, che in tv diventa un gruppo di terroristi che vogliono unificare tutti i popoli abolendo ogni barriera geografica) a U.S. Agent, un Captain America oscuro che rappresenta il lato filogovernativo delle istitutuzioni, character affascinante e potenzialmente ricco di risvolti caratteriali.
I primi episodi dello show mettono allora sotto accusa le istituzioni americane, il potere dei ricchi, la corruttibilità dell’opinione pubblica, l’influenza dei mass media: è per questo che Cap come simbolo (reso materia nello scudo) torna ad incarnare in qualche modo lo spirito americano diventando il capro espiatorio di tutti i problemi, ma diventandolo volontariamente, mentre in un corto circuito si spoglia del suo scudo e del suo simbolo.
The Falcon and The Winter Soldier è allora denso, politico, estremo e intelligente: peccando forse dal punto di vista del ritmo, ma riuscendo ad essere un punto di domanda necessario per iniziare a interrogarsi sul senso della nostra reale libertà.