The Father – Nulla è come sembra recensione film di Florian Zeller con Anthony Hopkins, Olivia Colman, Imogen Poots, Rufus Sewell e Olivia Williams
Anticipato dall’inaspettata vittoria del suo protagonista Anthony Hopkins, il lungamente atteso The Father arriva finalmente nelle sale italiane distribuito da BIM. Presentato al Sundance a gennaio 2020, The Father segna il debutto alla regia cinematografica di Florian Zeller, drammaturgo e regista teatrale francese che qui adatta per il grande schermo la sua acclamata pièce Le Père.
The Father come pochi altri film ruota tutto intorno al suo protagonista, chiamato semplicemente Anthony (Anthony Hopkins), un anziano inglese dai modi affabili ma decisamente burberi, la cui memoria e percezione della realtà iniziano a infrangersi sotto l’effetto di una malattia neurodegenerativa non specificata, probabilmente la demenza senile o l’Alzheimer. La figlia Anne (Olivia Colman) prova a prendersi cura di lui e lo porta a vivere con lei e con il marito (Rufus Sewell) nel loro appartamento, tentando al tempo stesso di affidarlo alla cura di una badante anche se lui finisce per cacciarle via in malo modo tutte. Anthony, però, non sembra accorgersi del suo stato di salute in declino, maltratta la stessa figlia e crede di essere ancora a casa sua.
Gran parte del film si configura col riproporsi e ripetersi di una serie di situazioni, elementi e allusioni: la necessità di cambiare badante, le tensioni tra padre e figlia e tra padre e genero, un pollo scomparso, l’orologio che l’anziano non sa più trovare e che teme gli sia stato rubato dalla badante o dal genero… Solo nel finale l’ambientazione si sposta dalla casa per addentrarsi in un ambito più asettico e ospedaliero, reso ancora più lacerante per il protagonista che, arriva a invocare la mamma davanti a un’infermiera.
Una delle caratteristiche e forse dei limiti di The Father è la sua aderenza agli stilemi del dramma da camera: il film di Zeller si impone subito per l’uso eccessivo del dialogo, a cui la stessa immagine audiovisiva è in qualche modo subordinata. Il ritmo dei dialoghi tra i personaggi, però, non è né quello di un film americano classico, dal montaggio veloce e con un continuum netto, né quello delle agonie bergmaniane alla Sussurri e grida. A ben vedere, The Father in qualche modo travalica una delle regole classiche dei film da camera, perché pur essendo ambientato per la maggior parte del tempo nell’appartamento di Anne in cui l’anziano Anthony si è trasferito “da qualche tempo”, non ha un uso lineare del tempo filmico. The Father in effetti sembra essere un esercizio sulla non-oggettività dello sguardo filmico: si propone come una sorta di soggettiva mediata del suo protagonista, sofferente di Alzheimer.
La malattia neurodegenerativa viene drammatizzata e spazializzata, fino a far degenerare e frammentare la stessa struttura filmica: ogni scena rettifica e contraddice in parte la precedente, riprendendo al tempo stesso alcuni elementi mostrati in precedenza: il fatto che Anthony abbia litigato con la badante Angela sembra vero, ma il trasferimento a Parigi che la figlia annuncia al padre nella scena iniziale del film viene poi insistentemente negato, salvo essere poi riaffermato nel finale con tanto di cartolina dalla Francia. Questo esperimento sulla non-oggettività dello sguardo e della rappresentazione filmica, tentato dai cineasti dai tempi di Hitchcock e del primo Polanski, forse è schematico ma di certo riesce a trasportare lo spettatore nella confusione mentale del protagonista. E, in un’occasione, si interseca nel montaggio filmico anche una sorta di fantasia della figlia.
Il protagonista è incredibilmente ben caratterizzato: dai momenti di pura affabilità e simpatia a un tremendo “vivrò più a lungo di te” detto alla figlia in un eccesso di ira, con una vera e propria paranoica e sospettosa ossessione di possesso, rivolta soprattutto alla casa e all’orologio, che accompagna il padre lungo tutto il film. Nonostante la malattia Anthony sa essere ancora manipolatorio: affascinante e irresistibile un minuto prima, raggelante il minuto dopo. Anthony Hopkins è come sempre irreprensibile nell’interpretazione del title character, per quanto altri suoi ruoli di quest’ultimo periodo come quello del fondatore di Westworld o di papa Ratzinger nel film Netflix I due papi, che pure non gli aveva fruttato l’ambita statuetta, forse erano ancora più fini a livello di sfumature e costruzione drammaturgica del personaggio. Anche il personaggio di Anne è chiaramente tratteggiato, e interpretato con vivido realismo da Olivia Colman, così come, per quanto secondaria rispetto al rapporto tra padre e figlia, sa restare impressa anche la nuova badante Laura, interpretata da Imogen Poots.
La costruzione drammaturgica di The Father, per la quale Florian Zeller e il suo co-sceneggiatore Christopher Hampton hanno vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, traspone al cinema una serie di stilemi che caratterizzano i dialoghi e in generale la struttura di certo teatro contemporaneo da Beckett in poi. Una certa frammentarietà dialogica, l’insistenza su ripetizioni di ogni sorta, la cura per le esitazioni e per i discorsi paralleli, per cui due personaggi si trovano a parlare di due argomenti contemporaneamente, come nella scena di uno scontro forse immaginario tra Anthony e suo genero. O ancora, la circolarità di una scena a tavola, la perdita delle coordinate temporali della giornata come quando Anthony, in pigiama, crede sia mattino ma i famigliari lo informano che è già sera: tutti questi sono degli elementi drammaturgici che si vedono relativamente spesso nel teatro contemporaneo e che The Father porta al cinema senza rendere il suo film eccessivamente teatrale. I dialoghi sono ben scritti e una battuta spicca su tutte: la frase che Anthony dice al termine del suo dialogo con l’infermiera, “mi sento come se stessi perdendo tutte le mie foglie”, è un correlativo oggettivo, corredato alla fine della scena anche dalla visualizzazione di un albero ancora fiorente, altrettanto efficace e forte come l’antonioniano “mi fanno male i capelli”.
Il gioco dei diversi piani di realtà allora avvolge tutti i livelli del film: dal montaggio alla costruzione delle scene alla sceneggiatura delle stesse fino alle singole battute. È significativo peraltro come The Father sia il secondo film dopo Nomadland, fra i candidati all’Oscar del miglior film, ad avere una colonna sonora a firma del nostro Ludovico Einaudi: i suoi brani, uno del tutto originale e altri sei tratti dal recente album Seven Days Walking, si intervallano con altre composizioni classiche, e, anche grazie a un uso di cori melodici certo non tipico delle tradizionali colonne sonore cinematografiche, contribuiscono a dare un carattere sacrale e quasi tragico della vicenda. La sua sperimentazione, con questo tentativo sicuramente ambizioso di resa cinematografica di una malattia neurologica come l’Alzheimer, forse non viene portata fino in fondo e The Father risente un minimo di una classicità non del tutto tradita e solo le interpretazioni dei due protagonisti bastano a renderlo uno dei must-see della stagione cinematografica, che adesso faticosamente inizia nel post-Covid.