The Great Buster recensione documentario di Peter Bogdanovich sulla leggenda del cinema comico Buster Keaton, con Mel Brooks, Quentin Tarantino, Johnny Knoxville e Jon Watts
È quasi impossibile non aver mai sentito parlare di Buster Keaton, la leggenda delle innumerevoli two reel comedies che hanno fatto ridere a crepapelle diverse generazioni di spettatori. Nel dubbio, il compianto Peter Bogdanovich ne dipinge un pregevole ritratto in The Great Buster, dal 17 novembre sulla piattaforma MUBI e in alcune sale italiane selezionate.
Premiato nel 2018 a Venezia Classici come miglior documentario, The Great Buster (in originale: The Great Buster: A Celebration) non è soltanto l’ultimo lavoro del regista americano, ma anche un lucido saggio su un pezzo importante della storia della settima arte. Il risultato è un’opera che racconta la vita e la carriera di un modello imprescindibile, oggi forse non ancora adeguatamente celebrato.
Una vita da film
La vita di Buster Keaton è a suo modo da antologia. C’è ovviamente il successo: gli inizi folgoranti negli spettacoli di vaudeville, la gavetta con l’altra leggenda del muto Fatty Arbuckle, l’incredibile successo dei capolavori degli anni ’20. Poi la sfortunata caduta: l’errore del contratto firmato per la MGM, l’avvento del sonoro, l’alcolismo, le rogne finanziarie. Infine, la meritata rinascita: la popolarità televisiva, alcune indimenticabili apparizioni – una su tutte, quella in Viale del Tramonto -, le nozze felicissime con la terza moglie Eleanor. Una vita da film, insomma. Quasi contrappunto di un cinema avvincente e spericolato, che ha nell’imprevedibilità più spiazzante un suo grande punto di forza. Il documentario, in tal senso, veicola una lettura binaria assolutamente riuscita: la storia di Buster Keaton è la storia del cinema nella sua interezza.
A delineare in The Great Buster questo stringente rapporto tra arte e vita sono i più variegati tra i cineasti: Quentin Tarantino, Mel Brooks, Johnny Knoxville, Werner Herzog e Bob Borgen sono infatti solo alcune delle stelle che, influenzate dall’esuberante creatività di Keaton, si raccontano a Bogdanovich mostrando una sincera adorazione. C’è ad esempio un mostro sacro come Brooks, che confessa di avere sempre sulla sua scrivania una biografia di Keaton per ispirarsi, o un regista cult come Tarantino, convinto che gli “scherzi” della leggenda comica funzionino grazie ad un utilizzo pioneristico della cinepresa. E non solo, gli influssi esercitati da Keaton sono ammessi anche da autori più disimpegnati come Johnny Knoxville, creatore del pazzoide franchise Jackass, e Jon Watts, regista degli ultimi capitoli di Spider-Man – i cui limiti imposti dalla maschera, racconta, vengono mitigati da una prossemica quasi keatoniana.
Un documentario indispensabile
Autore superbamente eclettico, Bogdanovich non è nuovo al genere del documentario. Il lunghissimo Tom Petty and the Heartbreakers: Runnin’ Down a Dream, biografia filmata di una delle più grandi star della musica americana, ne è un esempio abbastanza recente. Ma se, nel caso di Tom Petty, il lavoro di Bogdanovich cavalca l’onda di un grandissimo artista scomparso da poco, The Great Buster può apparire un’operazione più rischiosa. Scomparso nel 1966, la figura di Keaton avrebbe potuto risentire del trascorrere del tempo, e così alimentare un anacronismo pericoloso. Ma grazie al racconto calibrato del regista statunitense, Keaton appare una figura decisamente fresca, in grado di entusiasmare ancora oggi qualsiasi spettatore con i suoi audacissimi stratagemmi comici. Puntuali i resoconti degli intervistati e gli interventi del regista stesso, qui nelle vesti di rispettoso narratore.
Keaton, ad una visione piuttosto superficiale, è un artista della caduta elastica; dalle molte scene che Bogdanovich estrapola dalle sue pellicole lo si vede soccombere in tutti i modi possibili e immaginabili, affrontare demenzialmente una vita frenetica, essere preso di mira da uomini spietati e vigorosi. Per comprendere però il “fenomeno Keaton”, Bogdanovich intuisce di doversi soffermare su uno dei paradossi più spietati della settima arte: l’evoluzione di un sistema che da un lato glorifica le proprie stelle, ma che dall’altro non ci pensa due volte a limitare la creatività di un genio. The Great Buster eccelle nel restituire, appunto, la statura di una leggenda che deve essere analizzata soprattutto nella sua dimensione più umana e sofferente. Un precursore che, conservando ancora oggi una splendida modernità, porta scolpita sulla sua stoneface una malinconia sottilmente tragica, che travalica le acrobatiche meraviglie imposte dal divertimento slapstick.