The North Sea recensione film di John Andreas Andersen con Kristine Kujath Thorp, Rolf Kristian Larsen e Anders Baasmo Christiansen
Non capita molto spesso di vedere un disaster movie al di fuori dei confini hollywoodiani. Questo perché non tutti hanno il budget o la strumentazione tecnica necessaria, oggigiorno, per creare una pellicola di questo genere senza scadere nel grossolano, evidenziandone le limitazioni economiche. Di conseguenza, stupisce quando un paese non cinematograficamente centrale come la Norvegia propone al grande pubblico internazionale un film dagli evidenti tratti apocalittici senza puntare su figure attoriali di spicco, facendo affidamento unicamente alla storia che ha intenzione di raccontare. Presentato alla 16° edizione della Festa del Cinema di Roma, The North Sea è una sorpresa inaspettata, che non ha nulla da invidiare ai “rivali” d’oltreoceano, impartendo, magari, anche una lezione a questi ultimi, fin troppo boriosi e tranquilli nel loro precario monopolio, ultimamente assediato su più fronti.
Ambientato in un presente ipotetico, il film esamina una domanda abbastanza attuale: “e se i pozzi petroliferi del Mar del Nord subissero dei danni irreparabili, causando una catastrofe ecologica di portata mastodontica?”. In effetti, è un quesito che non viene posto molte volte nelle classiche pellicole apocalittiche, le quali tendono maggiormente a concentrarsi su temi sensazionalistici, come impatti con enormi meteoriti o devastanti eruzioni vulcaniche.
Nel caso di The North Sea, nonostante l’altissimo tasso spettacolare, il film non si perde mai eccessivamente nella mera messa in scena del disastro, ma tende anche a valorizzare le sue portate ideologiche, sottolineando una storia di abuso ambientale e di effettiva catastrofe irreparabile, che non minaccia un singolo istante della vita umana sulla Terra, ma diversi secoli a venire. Certo, questo non rende la pellicola immune a una scrittura banale, piena di luoghi comuni e dalle traiettorie facilmente anticipabili, però, quantomeno, si premura di offrire qualcosa in più del solo aspetto melodrammatico (il che lo mette già in risalto rispetto a gran parte della concorrenza americana).
La vera sorpresa, tuttavia, arriva a livello visivo. La regia di John Andreas Andersen non è strabiliante per il genere scelto, anzi, è molto più concentrata a raccontare una storia coerente che a esaltarne le caratteristiche da film catastrofico. Al contrario, gli effetti visivi sono il fiore all’occhiello della pellicola, in grado di catapultare il cinema del Vecchio Continente direttamente tra i fasti più esplosivi e pomposi dell’industria, prima monopolio quasi esclusivamente americano. Diverse scene lasciano con il fiato sospeso grazie principalmente all’utilizzo di effetti fotorealistici in grado di sbalordire. Ciò nonostante, il film non punta tutto sui risultati della CGI, ma cerca anche il più possibile di rimanere realistico e tangibile, scegliendo la maggior parte delle volte riprese dal vero, rispetto alla più “facile” controparte digitale, scelta non comune in una produzione di questo tipo.