The Painted Bird recensione del film di Václav Marhoul con Petr Kotlár, Udo Kier, Stellan Skarsgård, Harvey Keitel, Barry Pepper e Julian Sands
Ma cos’altro è stata, la Shoah, se non un film dell’orrore fin troppo reale? The Painted Bird sembra partire da quest’assunto, e il libro da cui è tratto (di Jerzy Kosinski, lo stesso di Oltre il giardino, all’epoca accusato di nazionalismo e di plagio) serve a Marhoul per portare a Venezia 76, in Concorso, un oscuro cammino quasi cristologico nel suo affondare nella violenza più cieca e ottusa.
The Painted Bird racconta la storia di un bambino, nell’epoca dell’Olocausto, affidato dai genitori ad una vecchia zia: se lui è bullizzato da alcuni coetanei che mentre lo picchiano a calci e pugni gli incendiano davanti agli occhi una lontra, la zia morirà bruciata in un rogo appiccato per caso. In seguito sarà: picchiato brutalmente dai suoi paesani perché accusato di essere uno spirito maligno portatore di calamità; venduto ad una zingara che lo schiavizzerà fino a seppellirlo fino al collo e lasciarlo in balia del becco acuminato di un branco di corvi; raccolto da un mugnaio che lo farà assistere mentre picchia selvaggiamente la moglie sospettata di adulterio e cava gli occhi al supposto amante con un cucchiaio; picchiato ancora, chiuso dentro un sacco; quasi fucilato dai nazisti, che però non si faranno mancare occasione di uccidere a sangue freddo madri e bambini; preso da un prete che lo affiderà ad un buon uomo che si rivela sodomizzatore e violento, ma che morirà sbranato dai ratti; appeso ad una corda mentre un cane gli mangia i piedi; accolto da un allevatore di uccelli che però si suiciderà dopo che la ragazza amata, una ninfomane, viene torturata e uccisa dalle donne del villaggio; gettato nel letame… ed altri esempi di brutale efferatezza.
Tutto in primissimo piano, tutto in bella vista sbattuto in faccia allo spettatore, cortocircuitando la bellezza di una fotografia essenziale in un bianco e nero che desatura l’immagine per rendere ancora più asciutto, ancora più lacerante il dolore, in un percorso fatto di un’oscurità così buia ma alla fine così compiaciuta da far destare qualche sospetto. Gli orrori a cui viene sottoposto il piccolo protagonista e a cui assiste suo malgrado diventano però, dopo la prima, lunga metà del film (che in tutto ha una durata monstre di 163 minuti), prevedibili e paradossali.
Se i richiami sono tutti al cinema di Von Trier e Haneke (che a confronto sembrano due sempliciotti), il côté teorico echeggia buona parte del cinema scandinavo: con cui però il film ceco ha ben poco a che fare. Perché siamo lontanissimi da un cinema rigoroso ma appassionato: The Painted Bird sembra teso solo ad annullare e spegnere ogni luce di speranza e di vitalità dagli occhi dell’innocente costretto al calvario, che inevitabilmente lo porta al dissolvimento individuale – il bimbo non ha nome – posto senza difesa di fronte al peggio che il mondo dell’essere umano può offrire, dalle superstizioni tribali al razzismo più ripugnante, da una religione oscurantista al finto perbenismo che genera mostri.
Così, l’opera di Marhoul sembra perdere una direzione e precipitare pian piano in una scivolosa ambiguità (che, a onor del vero, è presente anche nel romanzo) che non si salva pur rimandando ad un mondo preda dell’homo homini lupus, cieco di fronte all’innocenza, sbraitante e sbavante per un tozzo di pane. I corsi e ricorsi storici qua non c’entrano nulla: c’è solo l’autocompiacimento virtuoso di un cinema che segue le ombre oscene della banalità del Male, correndo il rischio di perdercisi dentro.
Gianlorenzo