The Return recensione film di Uberto Pasolini con Ralph Fiennes, Juliette Binoche, Claudio Santamaria, Charlie Plummer e Marwan Kenzari [Roff19]
L’Odissea. Una delle più grandi storie create dall’uomo. Dopo oltre duemila anni, le parole di Omero sono la radice delle narrazioni che ancora oggi ci sorprendono e scuotono l’anima, che siano esse impresse su carta stampata, pellicola o codice binario.
Della stessa storia, delle avventure di Ulisse attraverso il Mediterraneo, – road movie per antonomasia – sono state date infinite letture. Da Dante a Joyce, da Camerini a Kubrick. Ora è il turno di Uberto Pasolini con The Return, che, come tutti coloro che comprendono la grandezza e il limite del mezzo cinematografico, prende una porzione dell’epopea greca (il ritorno a Itaca, appunto) per offrire il suo punto di vista su questo racconto dei racconti.
Il film inizia proprio con Ulisse (Ralph Fiennes), naufrago e privo di sensi, sballottolato da una spiaggia all’altra dello Ionio, alternando il montaggio tra la sua condizione e il clima di tensione che circonda la sua famiglia in quel di Itaca. Qui, i Proci attendono impazienti che l’ambita regina Penelope (Juliette Binoche) decida chi sposare, dato che di suo marito, l’abile condottiero che ha contribuito a espugnare Troia, non si hanno più notizie da vent’anni.
Ovviamente, il ritorno di Odisseo cambierà le carte in tavola, portando all’epilogo che tutti noi conosciamo.
Cosa apporta Uberto Pasolini in più a questa storia sempre capace di ammaliare? Senz’altro una messa in scena convincente, spoglia ed espressiva, quasi da opera teatrale. Poi, sarà per il nome che porta, ma c’è qualcosa di pasoliniano nel modo in cui mostra questi personaggi miserabili, le terre brulle che vagano, i palazzi spogli che abitano. Anche i corpi, tra l’umano e lo scultoreo, rievocano le figure maschili che stazionano seminude, studiate dalla macchina da presa, in film come Edipo Re o Il fiore delle Mille e una notte.
Ralph Fiennes porta sullo schermo probabilmente l’Odisseo più credibile di sempre: un vecchio coperto di stracci, il cui viaggio è ancora visibile attraverso le ferite che sembrano non guarire mai. Pasolini ci mostra un Ulisse cristologico, che assurge al divino nel momento in cui si sveste della sua “maschera” per rivelare la sua vera identità e scatenare furia e morte sui Proci. Questo è solo uno degli esempi di come la pellicola abbandona la strada della leggenda per abbracciare quella della verosimiglianza.
In The Return non ci sono dèi: la loro presenza non è consentita su questa Itaca. Nessuna macchinazione divina guida le lame dei protagonisti. Sono gli uomini a decidere il destino degli uomini.
Il richiamo a tutto ciò che è accaduto prima, durante la lunga assenza, non ha ancora assunto i connotati del mitologico. Ulisse qui è un veterano di una guerra che è divenuta la sua casa. Pensa di essere perseguitato dal conflitto, e proprio questa convinzione porta allo spargimento di sangue. Era perso, smarrito, non perché lo scirocco lo conducesse sempre su nuovi e remoti lidi, ma perché più cosa significasse per lui il concetto di casa. Ha trovato conforto altrove, in altri letti, finché un giorno, non è stata la strada di casa a trovare lui. E può sanare le ferite attraverso l’unico linguaggio che padroneggia con maestria: la violenza.
La morte è entrata nella dimora di Penelope, e questo la spaventa. Non comprende come un uomo che lei ha atteso così a lungo possa essersi trasformato in tutto ciò che ha cercato di tenere lontano negli ultimi anni. Antinoo (Marwan Kenzari), da carnefice diventa un martire e i Proci si trasformano in una marmaglia di animali braccati, da eliminare uno a uno con l’arco tra i resti di quello che una volta era un vernacolo d’amore.
Così, il mito diviene studio sulla psiche umana e sul modo in cui una storia, se sviscerata di tutta la sua epica, non diventi altro che un coacervo di ingiustizie e brutture, dove la differenza tra bene e male svanisce perdendosi tra la spuma delle onde mediterranee.