La stanza accanto recensione film di Pedro Almodóvar con Tilda Swinton, Julianne Moore, John Turturro, Alessandro Nivola e Juan Diego Botto
Sono tanti i registi che hanno provato nel corso degli anni a raccontare la morte attraverso il grande schermo, solo pochi ci sono riusciti realmente. Ancora più difficile, narrare una fine volontaria come quella legata all’eutanasia.
Pedro Almodóvar presenta in concorso alla 81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il suo nuovo film The Room Next Door – La stanza accanto, prima pellicola interamente hollywoodiana girata in lingua inglese tratta dal romanzo della scrittrice newyorkese Sigrid Nunez Attraverso la vita.
L’intero racconto conta sulle forze di un piccolo quanto stellare cast che vede come protagoniste Ingrid (Julianne Moore) e Martha (Tilda Swinton), due giornaliste, amiche, che si rincontrano dopo tanti anni in circostanze del tutto insolite legate alla malattia terminale di Martha che le fa riavvicinare intrecciando i propri destini. Quest’ultima infatti, una donna brillante e indipendente che ha lavorato tutta la vita come reporter di guerra, non vuole che sia la malattia a dettare la sua fine e decide ricorrere illegalmente all’eutanasia attraverso l’assunzione di una pillola che segnerà definitivamente il termine delle sue sofferenze. Ad accompagnarla in questo difficile percorso, Ingrid, alla quale Martha affida il tormentato compito di farle compagnia e assisterla pochi giorni prima della sua morte trattando questa tragica parentesi della propria vita come una piccola vacanza durante la quale dedicare del tempo a se stessa e a fare un bilancio della propria vita.
La stanza accanto è un grido silenzioso che pone al centro della riflessione il tema della libera scelta raccontando con estremo rispetto e lucidità la difficoltà nell’accettare la fine, che sia di se stessi o di una persona cara. È nelle differenze però che troviamo la vera ricchezza: Martha e Ingrid infatti, pur essendo estremamente diverse per indole ed esperienze di vita, trovano la loro dimensione comune nel dramma della malattia di Martha che le spinge a riconsiderare le proprie certezze e convinzioni. Le due protagoniste sono sono donne forti e indipendenti che non sono mai scese a patti con la propria libertà, pur di andare incontro a grandi rischi e delusioni. Martha ad esempio simboleggia una figura che non ha mai aderito al modello di femminilità comune dapprima scegliendo la professione di reporter di guerra e poi non facendo ciò che “ci si aspetta da una madre”, percorrendo un percorso esistenziale che si distanzia dagli schemi della socialità contemporanea. Entrambe inoltre condividono una grande intelligenza e un’affinità verso il contatto fisico, censurato da una contemporaneità descritta dalle stesse protagoniste come “un mondo orrendo e disumano in cui non si vede parvenza di miglioramento”. Per mettere fine alla propria vita Martha decide infatti di allontanarsi dalla città dove ha sempre vissuto, colma dei ricordi e delle persone che l’hanno accompagnata da una vita, affittando una casa immersa nel silenzio della natura dove poter finalmente dare respiro alla propria mente e anima.
Le delicate ma incisive performances attoriali di Moore e Swinton sono supportate da una sceneggiatura calibrata che è stata in grado di esaltarne le peculiarità valorizzandole nella creazione di un perfetto equilibrio che risulta arricchente per la pellicola del regista spagnolo.
Pedro Almodóvar dipinge il suo set come farebbe un pittore con la propria tela tramite scelte fotografiche sempre riconoscibili ed estremamente bilanciate che diventano un vero e proprio strumento comunicativo usato dai personaggi per esprimere gli stati d’animo e il proprio essere. Inquadrature strettissime, sovrapposizioni di volti e sguardi rendono ancora più leggibile una dualità persistente all’interno della pellicola che tocca le corde più profonde della nostra sensibilità.