The Salt in Our Waters recensione film di Rezwan Shahriar Sumit con Fazlur Rahman Babu, Shatabdi Wadud e Titas Zia al Torino Film Festival 38
Si apre con un carico misterioso The Salt in Our Waters, opera prima del giovane regista del Bangladesh Rezwan Shahriar Sumit, presentata fuori concorso al 38esimo Torino Film Festival. Un uomo che sta per lasciare Dacca si assicura che tutto vada per il meglio e che il cassone di legno che lo accompagna venga trattato con cura, anche a costo di corrompere i portuali all’imbarco. Nel contenitore c’è tutta la sua vita, le sculture alle quali ha lavorato alacremente e che rappresentano la sua presa di coscienza, la rottura con le severe regole del padre e la possibilità di un futuro diverso. Il suo è un viaggio per certi versi nel tempo, in direzione di un’isola di mangrovie sperduta e sconosciuta in cui sopravvivono tradizioni arcaiche e una concezione della società fortemente patriarcale, se non ferocemente maschilista.
È proprio l’eterno conflitto tra tradizione e innovazione il centro narrativo di The Salt in Our Waters: le sculture portate sull’isola da Rudro sono infatti la rappresentazione metaforica di una nuova via, la possibilità di emanciparsi e progredire attraverso la cultura. Un rovesciamento dello status quo che si scontra con la direzione severa e repressiva del “Messere” del villaggio, un uomo che utilizza la religione e la superstizione per tenere soggiogati i pescatori, correlando gli eventi atmosferici alla condotta morale dei suoi “sudditi”. L’arrivo del giovane scultore ha un effetto destabilizzante, in particolare su chi viene affascinato dalle sue idee e da una visione che si allontana dall’arcaico pensiero dominante sull’isola.
La funzione di Rudro è, con le necessarie distanze, la stessa dell’enigmatico ospite di Teorema di Pier Paolo Pasolini. Sovvertire l’ordine stabilito, mettere in crisi il sistema ricattatorio del “Messere” e liberare i più giovani proprio attraverso l’arte e la possibilità di un pensiero individuale. Succede poco in The Salt in Our Waters ma il regista Rezwan Shahriar Sumit fa in modo che tutto quello che si vede sia in linea con il significato profondo del film. Rudro non viene investito di valori messianici né la sua è la figura di un illuminato. Semplicemente rappresenta la curiosità, la voglia di conoscere, di fare delle domande e, perché no, anche di ribellarsi alle ingiustizie. Non è casuale che il suo arrivo stimoli in particolare i figli dei pescatori, proprio perché questi sono più pronti ad accogliere il nuovo che avanza.
Rezwan Shahriar Sumit fa un ulteriore passo e sottolinea come la “rivoluzione” non solo sia necessaria ma passi attraverso l’emancipazione femminile. Tuni, la figlia di un pescatore, è infatti il personaggio più importante del film, quello che dopo un’iniziale diffidenza nei confronti di Rudro gli si avvicina e addirittura sposa le sue idee. La giovane non è tanto affascinata da lui quanto dalla possibilità di una vita diversa, alla pari, nella quale il suo pensiero possa avere realmente valore. Sono loro, chiusi all’interno del cassone di legno, il microcosmo che lotta affinché si arrivi al cambiamento, perché una gestione basata sulla filosofia delle avversità naturali non può continuare.
The Salt in Our Waters riesce a mantenere un buon equilibrio tra tutti gli aspetti messi in scena, nonostante qualche banalizzazione nella rappresentazione degli opposti schieramenti. Se la caratterizzazione dei personaggi sembra ben dosata, lo stesso non si può dire per la fluidità narrativa, con qualche inciampo di troppo nell’evoluzione degli avvenimenti. Rezwan Shahriar Sumit riesce a dirigere con mano ferma ma si fa frenare talvolta da un approccio troppo rigido, incapace di creare un reale coinvolgimento emotivo in chi guarda. La sua è una partitura monocorde che non raggiunge mai gli acuti. Nel complesso, però, The Salt in Our Waters è un esordio rispettabile, figlio di un modo di intendere il cinema che pone in primo piano più l’urgenza del messaggio che non la qualità dello stile.