The Zone of Interest recensione film di Jonathan Glazer con Sandra Hüller, Christian Friedel, Ralph Herforth, Max Beck, e Stephanie Petrowitz
The Zone of Interest: l’Olocausto visto da lontano
L’Olocausto visto da lontano, o almeno da abbastanza lontano da sfumare, cancellare i simboli che siamo abituati ad associargli. L’operazione che porta avanti il regista Jonathan Glazer (Under the Skin) con il suo nuovo film è la più ardita vista al Festival di Cannes 2023. The Zone of Interest ha vinto il Grand Prix, il secondo premio più importante della rassegna. Secondo molti, si sarebbe meritato la Palma d’Oro.
È così, almeno intendiamo la Palma come riconoscimento a chi fa dell’avanguardia cinematografica, impiegando il mezzo filmico in modi nuovi, spiazzanti, ottenendo risultati mai visti prima. La vittoria a Cannes però non è solo esercizio di stile e Anatomy of a Fall ha vinto meritatamente, almeno a parere di chi scrive. Glazer però dorme sogni tranquilli: ciò che ha fatto l’ha già fatto entrare nella storia di quest’edizione e del festival, regalando al cinefili uno dei film più impressionanti del 2023.
The Zone of Interest è l’adattamento filmico dell’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis, scrittore venuto a mancare proprio nei giorni di presentazione del film a Cannes. La speranza è che abbia fatto in tempo a vedere il film eccezionale che è stato tratto dalla sua opera. Il lungometraggio in realtà è un adattamento piuttosto libero del romanzo, incentrato sulla figura di Rudolf Höß e della sua famiglia. La storia ci consegna Rudolf Höß come il comandante del campo di concentramento di Auschwitz e una delle figure più attive nell’efficientamento della Soluzione finale. In qualità di gerarca nazista, lavorò instancabilmente a rendere più efficienti e quindi mortali i campi di concentramento in tutta Europa.
C’è una scena, forse la più convenzionale di tutto il film, che ci racconta così il protagonista. Rudolf Höß (Christian Friedel) è circondato da ingegneri che discutono con lui il modo migliore per costruire camere a gas e forni crematori. La scienza e l’efficienza teutoniche tentano di trovare la soluzione migliore per far funzionare entrambi a pieno regime, riducendo al minimo i tempi di raffreddamento. Gasare più persone, bruciarle più rapidamente, possibilmente con la minor pausa possibile tra un’uccisione e l’altra. Raggelante, immediato ma convenzionale.
Il resto del film invece guarda i protagonisti e personaggi da lontano. Non c’è un vero e proprio protagonista in The Zone of Interest se non forse il nucleo famigliare degli Höß: mamma, papà, niadata di bambini, domestiche e garzoni, occasionali amiche di lei e colleghi di lui. Gran parte della pellicola si svolge dentro casa Höß, in giardino, durante le gite di famiglia in riva al fiume. A interpretare Hedwig, la moglie di Rudolf, c’è l’immensa Sandra Hüller (protagonista anche di Anatomy of a Fall). Nonostante il suo volto sia noto, lo capiamo però solo a film ben avviato.
Camera fissa e lontana dall’azione, scene collettive, personaggi raramente inquadrati in primo piano, volto frontale alla camera. Tutto il film ci fa assistere sì alla vita della famiglia Höß, ma da lontano, faticando a distinguere i tratti somatici degli interpreti del cast.
Anche i campi sono abbastanza vicini, ma comunque lontani. Nel corso delle due ore di film non vedremo un singolo prigioniero, né entreremo dentro il campo di concentramento, che è pure spesso presente, sullo sfondo. Auschwitz è solo un muro sul limitare del bel giardino di casa, da cui si innalzano senza soluzione di continuità ma frequentemente urla di strazio, pennacchi di fumo e il fischio di un treno. Lo spettatore sa tutto il resto, bastano questi dettagli a evocare ciò che succede dietro il muro. Glazer è bravissimo a farceli notare, facendoli irrompere all’improvviso in scena, senza però metterli al centro. Senza che i protagonisti ci facciano caso.
The Zone of Interest racconta l’Olocausto come un sottofondo di una vita quotidiana che, proprio per questo, diventa agghiacciante. Una vita ostentatamente felice e “normale”, che subisce però interruzioni sinistre. Come quando il protagonista va a nuotare con i bimbi al fiume e torna a casa raggelato, perché ha trovato in acqua ceneri e resti umani che i bimbi potrebbero aver ingerito tra gli schizzi e gli schiamazzi.
Non è un film facile da vedere, ovviamente, né uno che si presti a universale apprezzamento. Il tema, l’orrore e le disturbanti musiche di Mica Levi rendono la visione una pura angoscia. Le scelte radicali di regia ci portano in un territorio spiazzante: onore al merito a Glazer che riesce a mantenere un ritmo apprezzabile senza una faccia da inquadrare, senza l’ausilio della dinamicità della ripresa, girando quasi tutto con la cinepresa ben piantata e inamovibile. Quest’anno è tra i primi a tentare di spingere la frontiera del cinema un passo più in là, nell’inesplorato.