Them recensione serie TV horror Amazon Prime Video di Little Marvin con Deborah Ayorinde, Ashley Thomas, Alison Pill e Shahadi Wright Joseph
Them: da Jim Crow a David Lynch, il serial horror di Amazon Prime Video
Antebellum, Us, The Hunt, His House e ancora The Falcon and The Winter Soldier, American Horror Story, e adesso Them: Covenant.
Sono tra i titoli migliori, al cinema e in tv, dell’annata ancora in corso di genere horror (tranne ovviamente il serial Marvel), e oltre ad essere opere horror hanno un’altra cosa in comune: parlano di razzismo.
La paura è ciò che non si conosce
Chi ha paura smette di ragionare e si affida a chi esibisce più sicurezza. E da sempre reazionari, dittatori, guerrafondai, fanno leva sulla paura: se tocchi la paura alle persone spaventate, reagiscono con violenza e forza.
Probabilmente è per questo che il cinema dell’orrore e la politica sono così legati (oltre al fatto che l’horror è da sempre il genere principe per studiare l’attualità e le paure socialmente più rilevanti), ma è una circostanza da tenere in considerazione che il panorama audiovisivo d’oltreoceano, oggi più che mai, produca show e film di tutto rispetto ma con al centro una piaga come il razzismo. Oggi, nel 2021.
Them: Covenant, serie in dieci episodi targata Amazon Prime Video disponibile in lingua originale (in estate arriverà il doppiaggio), parla di razzismo. E fa molta, molta paura.
Perché c’è qualcosa di molto lynchiano nelle terrificanti visioni dei protagonisti: un senso di immanenza e inafferrabile che sovrasta tutti traducendosi in apparizioni fantasmatiche e sinistre ma sempre distorte, agli angoli della visioni, sfocate, decentrate.
Impreviste.
Them: la trama dagli anni 50 ad oggi
Al centro Henry (Ashley Thomas) e Lucky Emory (Deborah Ayorinde): una famiglia come tante nel 1954, che fugge dal Sud americano per andare verso Nord, dove non hanno attecchito le leggi razziali di Jim Crow, quelle che prolungavano e promuovevano la segregazione e la separazione nei luoghi pubblici, emarginando di fatto una popolazione di colore che si trovava sempre più messa all’angolo.
La famiglia composta da padre madre e due bambine arriva quindi in un solo apparentemente tranquillo sobborgo californiano: dapprima hanno solo gli sguardi addosso, poi pian piano in maniera lenta ma inesorabile, arriveranno fuoco e fiamme (letteralmente) in un turbinio di razzismo che scuoterà le quattro persone nel profondo.
Fin qui, tutto sembrerebbe comunque nella norma: ma Them va più in là.
La particolarità della creatura di Little Marvin sta nella sua natura altra: perché Them non è solo un serial dell’orrore sul razzismo. Henry e Lucky nascondono un lutto straziante e indicibile nel loro passato remoto: un lutto così forte e dirompente da aver probabilmente rotto gli argini della loro sanità mentale.
E mentre i vicini wasp li accerchiano, dentro le loro stesse mura combattono la battaglia forse più difficile, quella contro la follia.
Si sgretolano le certezze, si abbattono i confini del razionale: gli orrori affrontati dagli Emory non hanno nome e neanche logica, perché sono i loro stessi sensi a tradirli. Una perdita di coordinate sensoriali che viene trasmessa anche da una regia raffinata e intelligente: perché la narrazione è ellittica, sembra avere un suo senso logico per frantumarsi contro le visioni più spaventose, si permette disgressioni importanti e inattese (come nell’episodio a metà stagione, il quinto, anomalo dal punto di vista del timing e anche del racconto che ripercorre tappe già viste ma da angolazioni differenti), si concede lussi dal punto di vista visivo con lenti, cromatismi e segni grafici Seventies.
Tutto questo mentre privato e pubblico si confondono così come si confondono i punti di vista e le visioni dei protagonisti: e se Them ruota intorno alla paura, è una paura che viene da fuori ma anche da dentro, perché il razzismo coinvolge la sfera intima quanto quella sociale, invade la tua casa e il tuo lavoro.
E allora non è solo il ritrovo domestico ad esserne contagiato, ma anche la sfera professionale: l’orrore è un virus che non conosce limitazioni.
America oggi
In questo quadro perturbante, c’è tutta l’America di oggi: le sue inquietudini e i suoi fantasmi, il rimosso che coincide con il rimorso e l’ironia affilata in un raffinato gioco di echi e rimandi.
E allora l’accettazione e l’assorbimento della realtà afroamericana nel contesto della borghesia moderna passa attraverso malcelati imbarazzi e goffi tentativi di ignorare o sminuire la questione razziale, senza dimenticare momenti shock (sottocutaneo per tutti gli episodi esiste e resiste un infanticidio realmente difficile da sostenere con lo sguardo), puntellati da mini esplosioni di furia motivata dall’ignoranza e dall’invidia, senza mai dimenticare di giocare con lo spettatore nel momento in cui il racconto non smette di essere ambiguo e allegorico, con una squisita essenza polisemantica che si presta ad una pluralità di interpretazioni, oscillando tra la sfera sociologica, culturale, antropologica e psicologica.
Affiancando allora al tema sempre purtroppo incandescente del razzismo altri spunti ugualmente stimolanti: lo sfruttamento dei ceti inferiori che genera odio e sentimenti di rivalsa, l’egemonia socio-culturale in una riflessione sulla natura umana e sulla sua istintuale tendenza alla sopraffazione e alla violenza, tutto in sottolineature di stile e di trama appena percettibili che poi a tratti esplodono con forza dirompente.
Lo slittamento di senso che invade ogni episodio, come una follia latente e repressa, fa si che il pubblico venga chiamato in causa in maniera attiva, in uno spettacolo che parla delle contraddizioni dell’America di ieri come di oggi, ma la cui valenza trascende uno specifico contesto storico-geografico per assumere un valore ancora più ampio.