Timoty Aliprandi, direttore della fotografia de La stanza di Stefano Lodovichi, protagonista della nuova intervista di Degenere, la rubrica sul cinema di genere
Questa è la tua prima collaborazione con Stefano Lodovichi. Come vi siete conosciuti?
Timoty Aliprandi: Tramite amicizie comuni, col tempo poi siamo diventati amici. Abbiamo realizzato insieme uno spot che in realtà era un piccolo corto, avevamo fatto un lavoro molto filmico. C’era la storia di un bambino che si intrecciava con quella di un adulto, che era Ermal Meta, un progetto un po’ particolare. Non era solo uno spot, era più articolato. Lì ci siamo un po’ “odorati”, per così dire, e abbiamo capito che c’era molto di affine, ci siamo trovati bene.
La stanza in origine doveva essere un documentario sugli hikikomori. A che punto sei stato coinvolto nel progetto?
Timoty Aliprandi: Il documentario credo fosse un’idea di un paio di anni fa. Io sono stato coinvolto dopo, quando già si parlava del film. Me ne aveva parlato. Non saprei dire se il cambio sia stato dovuto al lockdown o se invece ha capito che il documentario non gli interessava fino in fondo e ha preferito farne un film.
Stefano ha un DOP storico, Benjamin Maier, ma in questo caso per vari motivi ha chiamato me. Quando ho avuto questa occasione ho accettato volentieri, perché era interessante, particolare, poi mi ha contattato durante il lockdown, cosa che rendeva il tutto ancora più strano e intrigante. Una bella sfida.
Il film è girato in un’unica casa, che avete ricostruito in studio. Com’è stata la collaborazione con lo scenografo Massimiliano Sturiale? Avete dovuto adattare la casa alle esigenze di luce?
Timoty Aliprandi: Max è un genio, va detto. Ha fatto un lavoro grandissimo, davvero pazzesco. Lo dico sempre: l’immagine è fatta al 40% dalla scenografia, al 20% dai costumi, un 10-15% dal trucco e io metto quella lampadina che fa il suo 20%. Se tutto il resto è bello a me basta accendere una lampadina e sono contentissimo.
Io lavoro tantissimo con i reparti di scenografia e costumi, gli entro a casa di notte, li stalkero. Secondo me è importante che ci sia una linea molto precisa e marcata, definita e definitiva su tutto quello che si vuole fare. Quindi si studia una palette insieme, si costruisce tutto e poi quello dev’essere il risultato. Se si esce da quei canoni secondo me è sbagliato. Più che il direttore della fotografia cerco di essere il garante del fatto che quello che si è studiato sarà quello che verrà poi messo in scena.
Stefano è molto attento, sa di cosa parla quando si tratta di costruzione, arte, scenografia. Assieme a Max abbiamo studiato una serie di stanze dove poter ambientare quello che stabiliva la sceneggiatura, in cui comunque gli interni erano diversificati: cucina, stanza, salotto eccetera. Qualche cosa abbiamo cercato di spostarla per una questione di pesi e di estetica, portarla dove poteva essere più interessante. Max inizialmente aveva fatto un progetto altrettanto bello ma un po’ più ampio, con un paio di stanze in più. Era veramente bello, ma poi per una questione di tempi, budget e spazi dentro al teatro siamo stati costretti a togliere due stanze che erano di contorno e si vedevano solo sullo sfondo. In questo modo abbiamo avuto questo spazio aperto all’ingresso per dare profondità da entrambe le stanze. Abbiamo studiato dove mettere i punti luce, cioè le finestre, stabilire quanto grandi dovessero essere.
Poi abbiamo fatto anche un’altra cosa, che non so se si nota: all’ingresso abbiamo messo due scalini che portano in cucina e in salotto. Magari non si notano neppure e per me erano problematici perché per mettere un carrello erano un dramma, ma ho detto a Max: “sì, è bello, anche se non si nota è bello”. Anche una serie di dettagli li abbiamo visti insieme, ad esempio gli angoli dei muri abbiamo scelto insieme di farli tondi per dare questo senso di “uovo”, di placenta, di essere rinchiusi in una sorta di guscio.
Come ti sei misurato personalmente con l’idea di dover girare in una location unica? Come ha influenzato l’impostazione del film?
Timoty Aliprandi: Quando un DOP si prepara un film cambia sempre l’impostazione sia mentale che tecnica in base alla location, se dal vero o in teatro. Io avevo appena fatto un film piccolino, Weekend, che in buona parte è ambientato nei due piani di una baita che abbiamo ricostruito in teatro. In pratica uguale a La stanza. Lì però era completamente differente come struttura, come luce e come impianto, insomma era tutta un’altra cosa. Però comunque avendo appena fatto quel film ero abbastanza “fresco”.
Per La stanza è stato un po’ più complicato, perché abbiamo girato in due teatri allestiti in contemporanea, per questioni di velocità. Per dare agio a Max, ma anche a Stefano e a me visto che in una stanza piccola si lavora male, abbiamo costruito le due scenografie a ridosso del muro del teatro, in certi angoli a un metro. L’alternativa sarebbe stata prendermi un metro a lato, ma avremmo avuto delle stanze molto più piccole. D’accordo con Stefano e Max abbiamo deciso di dare più spazio alla scena e meno all’agio nell’illuminarla.
La casa è caratterizzata da una serie di grandi vetrate. Come hai gestito la luce che doveva necessariamente entrare dalle finestre?
Timoty Aliprandi: È stata una bella sfida. Abbiamo fatto la scelta forte di ambientarlo di giorno, volevamo uscire dai soliti canoni del thriller horror di notte e lo sconosciuto che entra in casa con il favore delle tenebre. Abbiamo deciso di farlo di giorno e con la pioggia, che in teatro è difficile da gestire perché ci dev’essere ma non deve essere troppa, sennò lo allaghi. C’è voluta una serie di compromessi per capire in che modo illuminare e come far sentire la pioggia visivamente, d’altronde si sente poco ma era ovvio perché serve un dettaglio per sentire la pioggia sui vetri smerigliati.
Invece che mettere dei fondali alle finestre, abbiamo messo del bianco con delle piante a dare profondità. I panni erano sia un fondo che il punto dove ho orientato dei Jumbo per creare una diffusa anche abbastanza dura. I Jumbo anche se rimbalzati sono forti, arrivano. Ho scelto il rimbalzo perché in uno spazio piccolo se metti il fondale con un panorama, muovendo la macchina per la parallasse senti che quel panorama sta a un metro, non avrebbe funzionato. Abbiamo scelto quindi di mettere la casa su una collinetta, come si vede dalla finestra della stanza di Stella, che si affaccia su questo cielo.
Normalmente quando si tratta di un interno giorno io cerco sempre di illuminare da fuori, dentro cerco di non mettere nulla, sia per una questione di estetica che per una questione di praticità. Mi piace che sia vera. Solo che in questo caso non mi bastava, sia perché essendo nuvolo la luce che entrava da fuori doveva essere bassa e sia perché non c’era lo spazio fuori per mettere una serie di proiettori; quindi ho illuminato anche un po’ dentro, cercando sempre di moltiplicare quello che arrivava dalle finestre e inventandomi, soprattutto nel corridoio e nell’ingresso, un lucernaio, come se da sopra ci fosse una fonte di luce morbida. Non ho voluto accendere le abat-jours, quando invece in molti film in un interno giorno con la pioggia sono accese, ce ne sono giusto due. Abbiamo fatto questa scelta anche perché a Stefano non piaceva molto tenere queste luci in scena. Normalmente aiutano, quando hai una stanza o un attore sottotono se hai un punto luce in campo riesci a tenere su la curva della scena, hai un punto in cui va l’occhio. Senza questi punti ho dovuto fare una fotografia un po’ più “all’americana”, cioè con l’esposizione giusta sui visi degli attori invece che giocando sui sottotoni degli attori per un fondo illuminato.
Ho usato molto anche gli Astera, da un kit che avevo ho creato un Soft Box da usare come se fossero dei Kino Flo. Mi ha aiutato molto perché hanno la batteria interna, quindi senza usare cavi mi ero fatto una serie di attacchi in tutto il teatro a cui appendere il Box in base alla scena, li gestivo poi con l’iPad.
Devo dire che è stato una svolta perché rende tutto più veloce. Io in genere faccio un setup iniziale e poi cerco di non toccare nulla, ma in questo caso mi serviva spostare in base alle esigenze di scena. È stato un ottimo modo di coordinarci.
Come hai illuminato le due scene in cui gli attori interagiscono con il buco nel muro?
Timoty Aliprandi: È stato un po’ complicato perché inizialmente dal lato della stanza degli ospiti si trattava veramente del buco che dava sull’altra stanza. Ho provato a fare una luce morbida, riproponendo la luce che stava dall’altra parte, quindi bassa, di un temporale. Così da quel buco passava pochissimo. Io tendo sempre alla verità, ma in questo caso non funzionava. Ho dovuto prendermi una licenza poetica e sono andato molto duro, con un proiettore diretto, ovviamente filtratissimo, con tanti strati di Frost, in modo che si sentisse quando passa l’occhio che c’era una luce senza però bucare l’occhio agli attori. In post poi abbiamo aggiunto un po’ di polvere perché si sentisse di più il filo di luce.
Per la scena in cui è Stella ad andare al buco abbiamo fatto qualche prova, prima con una luce dall’alto che andasse più sulle guance invece che sugli occhi, anche per uscire un po’ dal canone della luce nell’occhio, e poi invece abbiamo fatto un tentativo con la luce un po’ più bassa sull’occhio, che effettivamente era un po’ più classica ma funzionava anche per quello. Alla fine era più giusto che fosse l’occhio la parte illuminata.
Per il controcampo è stato più complicato perché abbiamo deciso di farlo con un’ottica macro, detta anche “Mosca”, che è un tubicino lungo e sottile della Laowa. È un 24 mm ma ha il diametro di 1 cm ed è lungo 30. Quindi siamo veramente entrati dento al buco. Inizialmente volevamo fare un carrello dalla stanza ad entrare dentro il buco, fino all’occhio. Non funzionava tantissimo, il movimento era troppo lungo per sentire la stanza e l’occhio. Quindi abbiamo scelto di fare solo un piccolissimo movimento, ho dovuto mettere dei led attorno all’attore per dargli un po’ di luce perché risultava molto buio, infatti si sente che è un po’ un’altra pasta, ma funzionava che fosse anche un’altra cosa nel momento in cui guardano nel buco.
Il genere del film ha una lunghissima tradizione, così come esistono molti film girati in un unico ambiente. Ti sei ispirato a qualcuno o a qualcosa? Con Lodovichi vi siete scambiati delle reference visive?
Timoty Aliprandi: Ormai anche noi stiamo imparando quello che da anni si fa negli altri Paesi, cioè che serve una traccia per andare da qualche parte, non puoi inventare da zero, ti serve una base. Di contro, non si può neanche andare solo su un film, altrimenti fai una copia e non ha senso. Ci siamo ispirati a diversi film, ognuno particolare per qualcosa: movimenti di macchina, fotografia, colori, atmosfere.
Io e Stefano ci siamo scambiati diverse reference, inizialmente tante, poi il campo è andato a restringersi. Come atmosfera iniziale c’era L’inquilino del terzo piano, anche come carica di ansia e di aspettativa, come senso di angoscia. È un film in cui c’è molta angoscia ma non capisci da dove sta arrivando ed era quello che volevamo noi, come macro-idea. Poi per le scene di Stella con il vestito da sposa ci siamo ispirati un po’ a Melancholia, per i colori mi sono ispirato a diverse cose.
Inizialmente il film doveva essere di notte, poi per una serie di reference che mi ha mandato Stefano, soprattutto diurne, abbiamo deciso che era più interessante farlo di giorno. Sia perché a lui lo vedeva molto con queste grandi finestre sia per creare qualcosa di non scontato.
Un’altra reference che avevamo condiviso, anche per queste finestre molto nordiche, è stato Il filo nascosto, lo abbiamo rivisto ed è stato un riferimento per la cupezza, l’atmosfera un po’ dark.
Hai impostato una LUT prima delle riprese?
Timoty Aliprandi: Sì, come look e come colori mi sono ispirato a La forma dell’acqua. Infatti la nostra LUT l’abbiamo chiamata “Guglielmo”. C’erano “Guglielmo calda” e “Guglielmo fredda”, che poi abbiamo reso una LUT sola, facendo un mix tra una base Kodak e una creata da noi. Le abbiamo miscelate per creare una sovrapposizione di colori e di toni sottile ma che dava un po’ di profondità.
Il film non c’entrava molto con quello di Del Toro, ma come carica di toni secondo me era il look giusto per quella casa.
Quale macchina da presa hai utilizzato? Quale set di lenti?
Timoty Aliprandi: Abbiamo scelto di usare l’anamorfico. Inizialmente volevo farlo in Large Format per sentire l’oppressione della casa, poi abbiamo optato per le anamorfiche che comunque danno questa larghezza, questo senso di un qualcosa di ampio che sovrasta l’attore. Abbiamo preso l’Alexa mini con le anamorfiche Cooke, che sono morbide ma un po’ troppo moderne, precise. Di mini ne avevamo due, per i rallenti invece abbiamo preso una terza camera, una SXT, perché non volevamo scendere di qualità con il Raw.
Abbiamo optato per una serie di filtri che non fanno delle aberrazioni troppo forti sulle alte luci, ammorbidiscono l’immagine e tendono un po’ a spezzare il pixel, danno un po’ una sfumatura, una pasta. Poi l’alone sulle alte luci l’ho aggiunto io in post, perché farlo in scena con quelle finestrone sarebbe stato complicato.
Quali sono stati i maggiori interventi in color correction? Dove si è svolta e quanto è durata?
Timoty Aliprandi: La color è stata fatta con Ivan Tozzi a Luce-Cinecittà. Sono i vecchi studi di Cinecittà, ora gestiti dall’Istituto Luce, che sta facendo un lavoro grandioso. Stanno tornando ai vecchi fasti, c’è la qualità, la volontà di creare uno studio veramente serio sia a livello di post che di teatri. Stanno facendo un bellissimo lavoro di riammodernamento, hanno molti mezzi, tutto molto nuovo ma in un contesto con un bel sapore.
Loro sono stati molto disponibili e molto in gamba, ci hanno aiutato molto. Abbiamo fatto in tutto dieci giorni, ma molto spezzettati. Prima una settimana intera, poi abbiamo aspettato che arrivassero gli effetti e di volta in volta li coloravamo. In un certo senso, procedere così non è male perché ti dà il tempo di ripensare quello che stai facendo, di cambiare alcune cose, di capire se stai facendo la cosa giusta. Normalmente quando fai una color di due settimane di fila intraprendi una strada e non la lasci. Io infatti tendo a fare tanto in ripresa, fare una bella LUT solida e poi fare poco in color, quello che serve. Non sono un amante delle vignettone che si sentono in tutto il film per creare un po’ di contrasto o di profondità. Qualche vignetta in questo film c’è, ma c’è perché serviva in quel momento. Anche di maschere non ne uso molte, a meno che non mi servano in qualche scena particolare. Punto tanto sulla LUT, in color cerco di creare solo un po’ di profondità e soprattutto la pasta e l’incarnato, cerco di lavorare con la definizione, con dei plugin per le alte luci e le sfumature.
Ringraziamenti
Articolo realizzato in collaborazione con Tobia Cimini, co-autore dell’intervista.