Una rapida successione di inquadrature mostrano tre recinti abbandonati in mezzo a un paesaggio nebbioso in una strada deserta del Midwest americano. Tre fantasmi che sembrano tornare dal passato, tre strutture scheletriche su cui persiste una pubblicità di prodotti dimenticati, prodotti che si appellavano al desiderio invocando una probabile felicità.
I nuovi manifesti invece hanno lo sfondo rosso e caratteri enormi, neri. Tre avvertimenti, tre minacce sui tre tabelloni pubblicitari. Il primo chiarisce cosa è successo: Stuprata mentre moriva; il secondo segna il contesto: E ancora nessun arresto?, il terzo punta al principale responsabile: Come mai, sceriffo Willoughby?.
Niente consola Mildred Hayes per la tragedia che ha portato via sua figlia e se c’è qualcosa che la fa infuriare è il fatto che la polizia si sia arresa. Ecco perché spende tutti i suoi risparmi per affiggere Tre manifesti a Ebbing nel Missouri, almeno così farà sapere a tutti quello che è successo e quello che non è successo. E se ne sono accorti tutti, dal festival di Venezia (miglior sceneggiatura) ai Golden Globe (film, sceneggiatura, attrice e attore) a giudicare dai premi e dalla reazione del pubblico e della critica.
La strada desolata dei cartelli ci accompagna verso svariati luoghi che diventano piccoli teatri di follia, di vendetta, ma anche di riconciliazione. Sinistri scenari di odio e di paura si intrecciano nel cuore dell’America più nascosta, da dove si sviluppa un intero arsenale di personaggi e di situazioni che ricordano i fratelli Coen e l’intera tradizione del cinema americano.
Un lungometraggio compiuto, con una regia classica supportata nella sua interezza da un’ottima sceneggiatura e con personaggi che non hanno altri strumenti se non quelli di dialoghi taglienti e piccole dosi di cinismo. Martin McDonagh, regista e sceneggiatore, costruisce una storia perfetta.
La vicenda, come se fosse una grande tela, delinea lo sviluppo di ciascuno dei personaggi, della loro motivazione e della loro capacità di avere una propria storia all’interno del film. Il sentimento crescente, contenuto dall’odio e dalla rabbia irrazionale, sposta i personaggi verso la propria evoluzione. E se il messaggio è intenso, nulla sarebbe stato possibile senza un cast straordinario.
Frances McDormand, forse in uno dei suoi ruoli migliori, interpreta Mildred Hayes una donna che soffre per l’omicidio e lo stupro di sua figlia mentre la polizia locale si rivela assolutamente incompetente. Una donna che ha sperimentato la paura, che accumula un’eccessiva frustrazione nella sua vita e lo dimostra in ognuna delle sue parole cariche di veleno verso tutti. Tuttavia, ogni volta che McDormand sorride, ogni volta che diventa umana, ci emoziona. Il cast magistrale non finisce qui; Sam Rockwell, uno psicopatico irrecuperabile, è un personaggi più delineati e al tempo stesso carico di sfumature. E infine l’ottima interpretazione di Woody Harrelson, lo sceriffo malinconico.
Lo spettatore simpatizza con Mildred la donna contro tutti che chiede giustizia, ma che ben presto si rende conto che la sua testardaggine è più l’incapacità di capire che il mondo fa il suo corso piuttosto che la legittima richiesta di verità e la smania di espiare il senso di colpa che la travolge. Mildred risponde sempre con astio mentre riceve lezioni di pietà dagli altri personaggi.
Il male di Dixon (Sam Rockwell) è l’odio, il male di Mildred la mancanza di fede e il disprezzo verso il mondo, ma il dolore e la rabbia non ci rendono migliori e questo sembra chiaro a tutti. Anche a Mildred.
Gabriela