Triangle of Sadness recensione film di Ruben Östlund con Harris Dickinson, Charlbi Dean, Woody Harrelson, Vicki Berlin, Henrik Dorsin e Zlatko Burić
La forma cinica del cinema di Ruben Östlund
Dopo la Palma d’Oro per The Square (2017), il regista svedese Östlund fa il bis con Triangle of Sadness. La geometria cinematografica del cineasta è ormai ben consolidata, con un approccio e una scelta di personaggi e temi che si sono dimostrati in grado di conquistare due Palme d’Oro. Desta una certa impressione constatare quanto il gioco di Östlund – calcolatissimo e molto manipolatore – non sia stato ancora messo all’angolo e anzi, venga ancora proclamato come dissacrante, provocatore e incendiario. Eppure, guardando più da vicino i suoi film (a cui va riconosciuto di essere accattivanti, irriverenti e ottimamente eseguiti), ci si accorge che non fa granché, se non adulare la nostra intelligenza, servendoci facili slogan con cui è difficile essere in disaccordo.
Bisogna riconoscere al regista svedese di saper confezionare un film d’ambizione autoriale che si muove con grande agilità, risultando molto godibile per chi sia un minimo predisposto al genere e capace di conquistare quanti cedono con facilità a certe lusinghe cinefile. Quelle di un cinema che sceglie bersagli volutamente indifendibili e sgradevoli, per umiliarli divertendo il pubblico in sala, senza mai renderlo partecipe e parte del problema, anzi, titillando il suo ego.
Quanto è facile disprezzare i ricchi
Ancora una volta il bersaglio di Ruben Östlund sono i ricchi più ricchi, quelli che vivono una vita lussuosa che risponde a regole molto differenti a quelle della maggior parte della popolazione, anzi, che ormai fatica a comprendere l’esistenza delle regole stesse.
Dopo i nababbi snob del mondo dell’arte di The Square, tocca a due nuovi tipi di benestanti che popolano il lussuoso yacht da crociera dove si svolgerà buona parte della vicenda. I primi a essere introdotti, quelli che si presentano come quasi protagonisti di un film corale e collettivo, sono Carl e Yaya, due modelli e influencer che fanno coppia un po’ per amore, un po’ per rafforzare a vicenda i propri numeri su Instagram. Dato che a loro prodotti ed esperienze come la crociera extralusso del film vengono regalati per creare post, video e contenuti dedicati, si ritrovano a dividere lo yacht con quanti invece pagano il lussuosissimo soggiorno di tasca propria. Tasche senza fondo per proprietari di aziende produttrici di armi, giovani geni del settore tech, vecchi oligarchi russi ammiratori di Reagan. Quello raccontato in Triangle of Sadness è un mondo popolato da diversi tipi di ricchi, accomunati dal fatto di aver quasi perso il rapporto con la realtà e i lavoratori che la popolano, pagati per garantire l’assoluto benessere dei ricchi.
Nella terza e ultima parte del film la pellicola si sposta su un’isola, ma le radici del discorso che Ruben Östlund vuole fare sono tutte a bordo dello yacht: una mini-società rigidamente classista in cui il servilismo del personale è tutto alimentato dal desiderio di ottenere le briciole in forma di mance da parte dei ricchissimi passeggeri a bordo.
Oltre alla ricchezza, al classismo e alle macerie politiche dei principali movimenti politici che si sono contrapposti nel Novecento (comunismo e capitalismo), Triangle of Sadness trova anche il tempo di riflettere sui rapporti tra uomini e donne, dettati sia dalla lotta per l’uguaglianza tra generi sia da antiche consuetudini della società patriarcale dure a morire. Sembrerebbe un commentario sociale tanto acuto quanto caustico, considerando che ai passeggeri della crociera succedono cose mortificanti, umilianti e per alcuni fatali. Certo è che nel 2022 non dovrebbe essere considerato “forte” e “dissacrante” mostrare un personaggio che si vomita addosso, specie se in maniera compiaciuta, reiterata e manipolatoria come in questo film.
Ruben Östlund si diverte a mostrarci i nababbi al massimo del loro lindo splendore per poi farli ripetutamente vomitare, scivolare nei propri escrementi e talvolta morire. A ben vedere però il cinema di Ruben Östlund se la prende sempre con figure tanto irraggiungibili quando indifendibili, rendendo il pubblico proprio alleato nell’umiliare questi personaggi, facendolo gongolare, fornendo una catarsi che sappiamo essere molto, molto difficile nella realtà. Oltre alla meschina soddisfazione di veder soffrire una persona incurante delle nostre sofferenze, questo genere di approccio non dà nulla.
Più plateale che ficcante
Il commentario sociale di Triangle of Sadness non è incisivo, quanto piuttosto plateale: punta a conquistare il pubblico con battute e scene forti, ma non dice mai qualcosa che non sia una banalità, che non si spinga oltre la consapevolezza delle ingiustizie del presente. I dialoghi brillanti del film funzionano come slogan a effetto, le battute si trasformano in tweet ironici e irriverenti. Al lato pratico, così come tanti attivisti da tastiera, Ruben Östlund non ha risposte e non sembra nemmeno porsi altre domande oltre a come rendere accessibile e appetibile un film che vuole essere autoriale, che faccia sentire il suo pubblico assai intelligente. Eppure parlando di social e di relazioni tra uomo e donna si sarebbe potuto (dovuto?) chiamare in causa il pubblico, mettere in crisi le sue certezze, mostrando con la stessa irriverenza tutto il suo limite e i suoi difetti.
Invece e il finale della pellicola si dimostra ampiamente prevedibile, perché un film così impegnato a non tirare in mezzo il suo pubblico, facendolo interrogare sulle proprie di mancanze e responsabilità, non può che optare per un finale che dia un’impressione di ricercatezza autoriale e cinismo comico. Ridiamo di altre persone, lontane e orrende, senza che nessuno ci mostri cosa abbiamo in comune con loro. Ci sentiamo soddisfatti in sala perché cogliamo un umorismo che in realtà è continuamente reiterato, ripetuto, studiato per consumarsi in velocità, venire memeificato senza mai arrivare a confrontarsi con la vita vera, con le sue complessità, senza rete di sicurezza.