Tutto il mio folle amore recensione del film di Gabriele Salvatores con Claudio Santamaria, Valeria Golino, Diego Abatantuono, Giulio Pranno
Elena (Valeria Golino) ha un figlio autistico, Vincent (Giulio Pranno) ed è sposata con Mario (Diego Abatantuono), che ha scelto di crescere come suo il ragazzo dopo che il vero padre, Willi (Claudio Santamaria) li ha abbandonati non appena venuto a sapere della gravidanza. Ma quando Willi, cantante da pianobar, incontrerà, un pò per caso un po’ no, Willi, i due si imbarcheranno fortunosamente in una turnè musicale che li riavvicinerà in maniera inaspettata, cambiando gli equilibri familiari.
C’è stato un momento nel quale Salvatores, forte dell’Oscar per Mediterraneo e uno stile fortemente riconoscibile, era probabilmente uno degli autori italiani più celebri nello scenario internazionale: complice poi la sua voglia di esplorare e sperimentare, con film riusciti ma sfortunati come Denti e Nirvana o altri ben accolti al botteghino ma meno autoriali come Come Dio comanda e Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, ha perso il polso del suo pubblico e il controllo della sua ispirazione.
Tutto il mio folle amore, pur con parecchi difetti, invece restituisce il suo spirito più autentico, quella sua innegabile capacità di emozionare e coinvolgere e portare sullo schermo storie sentite e urgenti: il film è tratto dal romanzo Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas, a sua volta una storia vera su un padre che ha viaggiato per anni con il figlio malato alla ricerca disperata di cure sperimentali, tradizionali, spirituali, e sembra centrare il fulcro emotivo della storia legandolo perfettamente ai temi più vicini alla sensibilità da regista di Salvatores.
Tutto il mio folle amore parte prima di tutto come un viaggio on the road, una fuga tanto cara al regista di Marrakech Express, un viaggio iniziatico che diventa romanzo di formazione: per gli adulti, che attraverso il percorso interiore unito a quello esteriore, vedono in prospettiva la propria esistenza traendone bilanci e decidendone le sorti, e per i più piccoli, in una dicotomia che l’autore ama esplorare confrontando le generazioni come due mondi differenti, frutto di quella dualità che sembra in maniera manicheistica divedere l’essere umano in due poli opposti.
Con l’aiuto di una curatissima colonna sonora (che offre brani abusatissimi ma in un contesto efficace e perfettamente in linea con lo sviluppo narrativo della storia), il film presentato in anteprima a Venezia 76 Fuori Concorso torna ad esplorare quelle geografie emotive e paesaggistiche tanto care a Salvatores, quei grandi spazi riflessi in claustrofobici contorcimenti psicologici, con un gusto preferenziale per i dialoghi fiume; sono le grandi distese – mare, cielo, prati, campagne – nelle quali i protagonisti si perdono e contro le quali gli stessi cercano di resistere resistendo ad un fatalismo immanente e sempre presente.
Con un occhio al cast. Che a tratti sfiora una recitazione troppo carica o troppo spenta: ma che probabilmente è stata richiesta dal regista stesso, perché Tutto il mio folle amore è una di quelle opere che mira alla verità delle sue immagini piuttosto che alla perfezione del racconto in sé per sé (e infatti, alcune svolte narrative sono difficili da giustificare): allora la Golino e Abatantuono ritrovano il feeling, migliorandolo, di Puerto Escondido, Santamaria stupisce per sensibilità sfiorando in alcune sequenze la vera commozione.
Ma è con il giovane Giulio Pranno che Tutto il mio folle amore – Volare (il sottotitolo del film, che rimanda sempre al Modugno di Cosa sono le nuvole) fa un pieno centro, con un’interpretazione strabiliante ed emozionante, perfettamente bilanciata, riuscendo in una delle imprese titaniche del cinema, ovvero parlare della malattia senza cadere in cliché, patetismi o robetta convenzionale. Perché Salvatores ne estrae il nucleo, e lo utilizza bene per un discorso più ampio sull’accettazione degli altri ma prima di tutto di noi stessi, pur tra i mille stridii di una quotidianità che ci schiaccia, e nella quale facilmente perdiamo il senso di noi stessi. Con la speranza di tornare a volare.
Gianlorenzo