Un altro mondo recensione film di Stéphane Brizé con Vincent Lindon, Sandrine Kiberlain, Anthony Bajon, Marie Drucker, Guillaume Draux e Olivier Lemaire
Arriva finalmente nei cinema italiani il nuovo film di Stéphane Brizé, Un altro mondo (Un autre monde), presentato in conclusione del concorso della 78ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Ultimo film della trilogia sul mondo del lavoro del regista francese, dopo La legge del mercato e In guerra, di nuovo insieme a Vincent Lindon ad esplorare il violento panorama del mondo del lavoro moderno.
È una bomba ad orologeria, quella che Philippe Lemesle (Vincent Lindon), dirigente di una filiale provinciale di una multinazionale di elettrodomestici, si ritrova ad osservare negli istanti appena precedenti alla sua esplosione. Pedina di un meccanismo devoto al denaro, dove il lavoro non è altro che una miniera in esaurimento da sfruttare a discapito delle persone. Licenziare il più possibile, unica soluzione che amministratori accecati dal guadagno riescono a trovare. Philippe è in mezzo, poco potente per poter decidere e troppo preoccupato dalla sua posizione, costruita in anni di lavoro, per poter abbandonare. Anche la vita privata sta pian piano esplodendo: la moglie trascurata cerca il divorzio; il figlio con la necessità di sottoporsi a lunghe cure mediche richiederà attenzione ed amore. Un personaggio fallace, contraddittorio in ciò che trasmette e nella figura che ricopre ma profondamente umano.
Come un equilibrista in bilico su un filo, Philippe dovrà cercare di rimanere a galla. Prendere decisioni che cambieranno irrimediabilmente la sua vita e quella di tante persone a lui collegate. Vincent Lindon è perfettamente nella parte, dopo aver interpretato il ruolo dell’operaio e del sindacalista nei precedenti film della trilogia di Brizé, donando pian piano sempre più tridimensionalità al personaggio che da meschino dirigente senza scrupoli, inizia lungo il corso del film a rivelare le sue debolezze. Sperimenta tutte le prospettive all’interno del trittico di film del regista francese, ciascuna differente ma tutte accomunate da un unico punto denominatore, l’oramai irrimediabile perdita dei valori umani nel lavoro moderno.
Dichiarazione politica forte di Brizé, che decide di lasciare spazio nella sua regia all’urgenza di raccontare in maniera abbastanza netta il conflitto sociale ed economico provocato dal capitalismo. Non ha l’incisività di Ken Loach, vero maestro del cinema politico moderno, ma riesce a ritagliarsi uno spazio tutto suo; soprattutto considerando il panorama francese contemporaneo. Ci sono tante discussioni ai tavoli, negoziazioni, riunioni ed è qui la macchina da presa si ritrova a muoversi, senza dare segni di affaticamento. A differenza della sceneggiatura, scritta a quattro mani dallo stesso regista con Oliver Gorce, che soprattutto sul finale tende a rallentare; come ad allungare eccessivamente una storia che non ne sentiva particolare bisogno, rimanendo però incisiva e fedele alla propria intenzione iniziale.
Si passerà tanto tempo negli uffici, immersi tra i fogli di carta, in giacca e cravatta, nell’anonimato delle scenografia. La pellicola di Stéphane Brizé si rivela perfetta per ciò che vuol trasmettere, sicuramente però non cinematografica. Poche volte si uscirà all’esterno e poche volte ci si allontanerà con la cinepresa da Philippe, per costantemente indugiare sui suoi dilemmi e sulle sue difficoltà. Fotografia che insegue anche lei una semplicità formale, come tutte le altre componenti tecniche, a voler togliere qualsiasi barriera tra protagonisti e spettatori.
Un film dal profondo lato umano, con persone inghiottite da un meccanismo perverso ma terribilmente comune che non lascia vincitori ma solo vinti. L’unica via di salvezza sarà ricercare una morale personale e sperare che basti per smontare gli ingranaggi del sistema oppressivo, ritrovando la felicità e serenità perdute.