Un divano a Tunisi recensione film di Manèle Labidi con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura, Aïcha Ben Miled, Feriel Chamari e Najoua Zouhair
Il primo lungometraggio di Manéle Labidi Un divano a Tunisi ha vinto il Premio del Pubblico alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia. Precedentemente, la regista franco-tunisina aveva realizzato soltanto un cortometraggio, Une chambre à moi. Manéle decide di portare sul grande schermo una commedia sugli stereotipi culturali più classici con protagonista Golshifteh Farahani, celebre attrice iraniana vista in Tyler Rake, Paterson e Exodus – Dei e re.
La 35enne Selma Derwich decide di lasciare Parigi per tornare in Tunisia, suo paese di origine, al fine di aprire uno studio psicoanalitico. Il suo ritorno però non sarà semplice visto che dovrà scrollarsi di dosso il suo carattere parigino, nonché fare i conti con una società reduce dalla Primavera araba. Una società che crede che il Mossad abbia ucciso Kennedy e che dire “sesso” davanti agli anziani sia gravissimo. Ma soprattutto, dovrà lottare contro la burocrazia tunisina intenzionata a farle chiudere lo studio.
Un’opera che già dalla trama si mostra coraggiosa, ma il vero coraggio è la rappresentazione di Selma: ha un viso orientale ma un carattere francese e questa commistione la rende affascinante. Selma lotta da sola contro la burocrazia e contro la sua famiglia che cerca di scoraggiarla. Una donna forte, indipendente, senza un velo e costantemente con la sigaretta in bocca.
Oltre al messaggio sull’emancipazione femminile e alle sequenze più prettamente comiche, che tuttavia funzionano solo a sprazzi, rimane purtroppo poco altro agli spettatori: Un divano a Tunisi riesce a far sorridere soltanto quando ironizza sulla politica, mentre si dimostra più debole nel ritrarre il rapporto tra la psicanalista e i suoi pazienti, che non si evolvono e non sembrano essere realmente aiutati dalla donna.
Una brava protagonista – Golshifteh Farahani – un soggetto coraggioso – scritto dalla regista Manèle Labidi insieme a Maud Ameline – una love story prevedibile e un epilogo un po’ stiracchiato fanno di Un divano a Tunisi un’opera riuscita solo a metà: il coraggio può essere una buona arma, ma se non se ne fa un buon uso ci si può ritorcere contro.