Una madre, una figlia recensione film di Mahamat-Saleh Haroun con Achouackh Abakar Souleymane, Rihane Khalil Alio e Youssouf Djaoro
Mai come negli ultimi anni l’industria cinematografica si sta concentrando nel raccontare storie al femminile, con protagoniste capaci di smarcarsi dagli stereotipi di genere; è immediato pensare agli ultimi film trionfatori in due dei festival cinematografici più importanti al mondo: Titane a Cannes e La scelta di Anne – L’Événement a Venezia.
Una madre, una figlia ragiona proprio sullo stesso tema – quello dell’aborto – su cui si concentra il film di Audrey Diwan, ma se il film francese è ambientato negli anni ’60, quello di Mahamat-Saleh Haroun si svolge nel Ciad dei giorni nostri.
Il film racconta della 15enne Maria, rimasta incinta e intenzionata ad abortire in un paese in cui l’aborto è un reato ed è moralmente condannato anche da qualsiasi persona la circondi. Il grande pregio di Una madre, una figlia è proprio quello di riuscire a ritrarre l’ambiente circostante a Maria e alla madre Amina con grande attenzione e sincerità, denunciando un ostracismo ingiusto verso le giovani donne. Dall’imam alla scuola, ogni figura pubblica giudica Maria, la quale può confessare solo alla propria madre l’intenzione di non tenere il bambino. Come dichiarato dallo stesso regista, questo è un tema a lui molto caro: “Volevo ritrarre la vita di queste donne che vengono emarginate ma non vivono come vittime e non si considerano tali. Sono le eroine non riconosciute della vita di ogni giorno.”
Molti film di denuncia come Una madre, una figlia si concentrano principalmente su cosa vuole raccontare l’opera senza concentrarsi sulla forma e sulla tecnica, Mahamat-Saleh Haroun, invece, impone un’idea visiva ben precisa; ad esempio le due protagoniste sono spesso posizionate ai limiti dell’inquadratura, soprattutto quando si muovono non sono al centro dello sguardo della macchina da presa. Questo espediente non è sicuramente innovativo, ma è funzionale al racconto poiché in sé racchiude le sensazioni vissute dai personaggi. Inoltre il regista evita i cliché tipici di storie come questa, come i monologhi strappalacrime, e si dimostra molto rispettoso verso le tematiche affrontate senza che esse vengano spettacolarizzate.
Il titolo originale è Lingui, ossia legame. Ed è proprio il legame tra la madre – che in passato ha vissuto la stessa esperienza della figlia – e la figlia a funzionare meglio, ma anche i legami tra le varie donne costituiscono la spina dorsale che regge l’intera opera, non a caso un uomo chiederà una cifra molto alta per eseguire l’operazione mentre una donna si offrirà di aiutare la protagonista proprio per il legame solidale tra di loro.
Una madre, una figlia riesce dunque a emozionare senza essere ricattatorio, una qualità non così usuale nei film di denuncia che trattano tematiche così delicate.