Vecchie canaglie recensione film di Chiara Sani con Lino Banfi, Claudio Gregori, Andy Luotto, Andrea Roncato, Noemi Gherrero e Gianni Fantoni
Lino Banfi è tornato al cinema con la nuova commedia diretta da Chiara Sani, Vecchie canaglie, pellicola che cerca di far ridere usando vecchi stereotipi e battute stantie e che si sarebbe potuta vender bene sulla carta: una storia che gioca sugli equivoci, ma che in realtà non ha una struttura che sia in grado di sostenerla. Il motore della narrazione è tanto insensato da far apparire questo film ancor più vecchio dei suoi stessi protagonisti.
Le premesse: una villa di riposo per anziani sta per essere venduta all’asta dalla sua dispotica proprietaria, interpretata dalla stessa regista. Per evitare di esser separati, un gruppo di anziani escogita un piano criminale per cercare di avere abbastanza denaro così da poter concorrere all’asta per il possesso della villa. Il personaggio interpretato da Lino Banfi chiederà aiuto al figlio (interpretato da Greg) che proporrà loro una cosca clandestina. Da qui inizia il ribaltamento tanto auspicato dalla regista, ovvero: la casa di riposo si trasforma in un ritrovo per la peggio criminalità internazionale.
La realtà è, però, che la casa di riposo si trasforma in un cumulo di stereotipi offensivi che non fanno di certo ridere. Le battute giocano su vecchi cliché che difficilmente incontreranno il gusto del pubblico più giovane.
I personaggi femminili, specialmente, giocano un ruolo chiave all’interno della narrazione, ma non si scollano dai classici usi e costumi della commedia di qualche decennio fa. L’impronta di Pupi Avati si nota, ma in Vecchie canaglie non vi è la necessaria evoluzione delle caratterizzazioni affinché questi personaggi possano risultare interessanti agli occhi del pubblico di oggi. Le battute sono offensive, lo slut shaming dietro l’angolo, il che risulta davvero meschino se si pensa che la regista sia una donna. Non è comprensibile, infatti, come sia possibile essere ideologicamente attaccati a certi stereotipi tanto da volerli riproporre in un proprio prodotto.
Nella compagine femminile, infatti, abbiamo la dottoressa interpretata da Federica Cifola che da “frigida” donna tutta d’un prezzo, una professionista che si oppone alla disgregazione e alla vendita della villa, diviene una donna dalla forte libertà sessuale con tanto di epiteti dedicati dagli altri personaggi in scena. Per non parlare del mansplaining compiuto dagli anziani ospiti maschili della villa nei riguardi dell’infermiera appena arrivata, interpretata da Noemi Gherrero, bionda e di conseguenza inserita nel novero di quelle donne angeliche che tanto si fanno desiderare dagli uomini da “rincretinirli”.
Citiamo inoltre la vicina di casa che con i suoi interventi e i comandamenti dati al marito dovrebbe comporre parte degli istanti comici all’interno della narrazione, ma che appare piuttosto come una triste donnucola che, dall’alto della sua finestra, non ha altro di meglio da fare se non comprare un drone giocattolo e spiare dei vecchietti. Possiamo pensare a lei come il reale impedimento all’interno dello svolgimento dei fatti: la sua curiosità morbosa, infatti, costituisce il principale ostacolo per la clandestinità della villa.
Un piccolo appunto sulla regia è doveroso. Chiara Sani cerca di dare un proprio tocco alla struttura del film anche attraverso l’inserimento di alcune vignette da lei stessa disegnate, intermezzi narrativi che focalizzano l’attenzione del pubblico sulla scena successiva. Non comprendiamo, però, l’uso delle chiusure a cerchio tra un passaggio di scena e l’altro. Sembra quasi un elemento che impoverisce i tentavi fatti con le vignette, creando un montaggio i cui cambi di scena non aggiungono nulla, un tentativo di innovazione di cui non è chiaro il senso. Si è cercato, dunque, di rinnovare delle vecchie tematiche attraverso un montaggio e delle scelte registiche ben precise, ma purtroppo i temi restano stantii all’interno di un film che non funziona e rischia di far sorridere soltanto un pubblico senile.