Venom: The Last Dance recensione film di Kelly Marcel con Tom Hardy, Chiwetel Ejiofor, Juno Temple, Rhys Ifans e Stephen Graham [Anteprima]
Venom è attualmente l’unico personaggio dell’universo di Spider-Man il cui film dedicato ha avuto successo economico, contrapponendosi ai flop di Morbius e Madame Web (aspettiamo al varco Kraven il cacciatore).
Un successo tale da aver portato prima a un secondo e ora a un terzo capitolo, con Venom: The Last Dance. Capitolo che fin dal titolo presuppone la volontà di tirare le fila e dare una chiusa a questa inaspettatamente fortunata trilogia.
Dopo gli eventi del film precedente, Venom: La furia di Carnage, Eddie Brock (Tom Hardy) e il suo simbionte alieno Venom, sono in fuga e cercano un modo per riabilitarsi. L’arrivo di mostruose creature inviate da qualcuno proveniente dagli albori dei simbionti (il loro creatore Knull), costringerà l’improbabile duo a scappare ancora, trovandosi davanti alla possibilità di dover prendere decisioni difficili e fino a poco prima impensabili.
Diciamolo: questa saga non ha mai brillato per coerenza interna. Esempio massimo è la sequenza di Venom: La furia di Carnage in cui l’extraterrestre gira tranquillamente per una discoteca senza che i suoni forti, sua dichiarata debolezza, sortiscano alcun effetto nocivo.
Eppure questo terzo capitolo, pur avendo in cabina di regia Kelly Marcel, sceneggiatrice dei due predecessori, riesce nell’impresa di contraddire ancora di più quel poco di mitologia che la saga aveva costruito (male) fino a quel momento. I simbionti in particolare vengono totalmente riscritti, ignorando la storia presentata nel primo film.
Non che Venom: The Last Dance manchi di contraddirsi anche come racconto a sé stante, con tanto di scena di mid credit che dovrebbe comunicare l’arrivo di una minaccia che il finale del film dovrebbe aver disinnescato, stando alle informazioni date dallo stesso.
Il peggior fallimento di scrittura ruota attorno a ciò che, in teoria, rappresenta il cuore di questa saga, ovvero il legame tra i due protagonisti. Eddie Brock e Venom condividono un legame fortissimo, paventato nel secondo film come una peculiare relazione omoerotica.
Peccato che, in nome di una comicità triviale, ogni interazione della coppia si risolva o coi due che non riescono a cooperare (alla faccia della simbiosi) o con l’alieno che prevarica sul disgraziato umano che lo ospita (quanto fa male vedere un grande attore come Tom Hardy ridotto alla macchietta di sé stesso), costringendolo a fare cose che lui palesemente preferirebbe evitare.
Gli effetti deleteri di questa sconclusionata relazione toccano l’apice nel finale, che vorrebbe creare un climax emotivo che non riesce a coinvolgere proprio per le premesse traballanti da cui parte.
A tappare le varie falle di scrittura dovrebbe pensarci un’efficace messa in scena, che però manca totalmente. La regista, esordiente, non riesce mai a imbastire uno spettacolo minimamente intrattenente, con una megarissa finale tra mostri alieni che non riesce a esaltare nemmeno i più accaniti fan dei mostri (di cui fa parte chi vi scrive).
Unica nota positiva sono le creature seguaci di Knull, caratterizzate da un design carino e una CGI convincente. Purtroppo gli effetti di Venom e degli altri simbionti che compaiono mantengano gli scadenti standard dei due film precedenti.
A fine visione rimane solo la speranza che venga mantenuta l’intenzione di chiudere qui il progetto. Ma sappiamo come nella Hollywood contemporanea i franchise, soprattutto supereroistici, siano più duri a morire dei supereroi stessi.