Viaggio al Polo Sud recensione documentario di Luc Jacquet
Luc Jacquet torna al Polo Sud. Lo fa partendo da una domanda che tutti potremmo porci, pensando a questa sua ennesima opera su quello che lui stesso chiama il continente magnetico, l’Antartide: perché tornare ancora in un luogo così estremo?
Incuriosisce anche la scelta di utilizzare un bianco e nero perenne e costante. Lo fa forse con l’intento di non distrarre lo spettatore, per tenere il suo sguardo a bada e consentire ad altre sensazioni di prendere il sopravvento? Eppure come si fa a rinunciare, soprattutto in luoghi così sconfinati e inesplorati, ai colori naturali e magnifici?
In Viaggio al Polo Sud la voce narrante di Luc Jacquet esalta la potenza della natura. La sua estensione. Le sue caratteristiche che imperversano inesorabili. Dal vento onnipresente a quelle distese di nulla dal fascino incommensurabile. E poi il silenzio, almeno apparente, che avvolge tutto. E pian piano tutto sembra prendere senso, anche ciò che sembrava più insensato.
Se inizialmente sembra esserci molto da mostrare, tra montagne e alberi immuni al tempo che passa, pronti a rinascere e a rinnovarsi; in beffa a noi mortali, che siamo solo di passaggio. Il tempo, la sua percezione che qui cambia, ridimensiona gli eventi, ha un’insolita profondità. Anche la vita diventa più facile da capire quando è ridotta all’essenziale.
Luc Jacquet attraversa le terre che furono di Magellano, riportando in vita fantasmi del passato che sembrano albeggiare nella selvaggia pace che circonda questi paesaggi incontaminati. Il suo è un racconto poetico dove quel bianco e nero inizialmente incompreso diventa sensato e necessario. Tanto che quando ad un certo punto compaiono sprazzi di blu si ha il dubbio di assistere ad una suggestione.
Inlandsis. L’infinito.
Ci si lascia la natura alle spalle e si va verso il bianco. Neve e ghiaccio prendono il sopravvento. Compaiono gli iceberg. Strane entità, ognuna con il suo aspetto e con il suo carattere, che amano viaggiare prima di prima di sciogliersi e liberarsi nel mare.
Più si prova a guardare oltre e più il bianco è ovunque. Ad interromperlo solo un milione di pinguini – il motivo per cui Jacquet è tornato in questa terra estrema. Ma il polo sud non è semplicemente un capo isolato e desolato del nostro pianeta: è un universo a parte, sconosciuto e incompreso dove tutto sembra immobile eppure tutto è pronto a prendere vita.
Prima di raggiungere il posto in cui si trovano i suoi adorati pinguini, di cui parla come membri effettivi della sua famiglia, bisogna però attraversare la banchisa. Chiederle il permesso di invadere il suo spazio così, mentre intorno tutto sembra tacere, l’unico rumore sgradevole è proprio quello della nave che solca il mare ghiacciato e che valica la banchisa.
Quando raggiunge finalmente il suo scopo, camminare insieme, accanto, ai pinguini nella loro migrazione, tutto sembra compiuto. Quella che con il tempo è diventata solo una linea su una mappa torna ad essere una terra leggendaria.
Vederlo avanzare su quel bianco infinito ci riporta indietro nel tempo, a quando l’uomo passeggiava sulla luna, a quando Magellano esplorava per la prima volta queste terre affascinanti. E mentre Luc Jacquet porta a termine il suo viaggio sensoriale e sentimentale, con la paura di non riuscire a ritornare su queste terre fantastiche ancora una volta, esprime un’unica e commovente speranza, che ognuno di noi possa conoscere la sensazione di essere colmato dallo splendore del mondo.