Viking recensione film di Stéphane Lafleur con Steve Laplante, Larissa Corriveau, Fabiola N. Aladin, Hamza Haq, Denis Houle e Marie Brassard
Vincent Fournier è un fotografo francese con l’ossessione per lo spazio, le tecnologie e il futuro. Il suo servizio più importante e in continuo aggiornamento, Space Project, è un mix di visione storica e documentaristica dell’avventura spaziale, con scene ispirate al cinema e ai ricordi della sua infanzia in cui astronauti vagavano in deserti ai confini della realtà. Quando Stéphane Lafleur ha avuto modo di vederlo, gli si è manifestata per la prima volta l’idea di un film che parlasse di quelle atmosfere reali contaminate da una fervida finzione.
Fortunatamente, Viking ha trovato il suo avatar per abbandonare l’iperuranio del regista francese, raccontandoci la storia di una missione spaziale su Marte condotta nelle terre desolate tra Canada e Stati Uniti. Non si tratta di un’errore o di un fatto di cronaca, ma di un’operazione parallela condotta da un’organizzazione governativa per supportare un team realmente in viaggio verso il pianeta rosso. L’obiettivo è replicare in scala 1:1 quello che succede – ma anche gli scenari possibili – a distanza siderale, nella speranza di fornire soluzioni e applicare correttivi utili per la buona riuscita della missione madre. O affossarla definitivamente.
Una premessa brillante e assurda, costruita alla perfezione da chi è consapevole di non avere a disposizione il budget necessario per azzardare una vicinanza effettiva al genere, ma consapevole di un concept originale fortificato da una scrittura estremamente accurata. La perenne oscillazione tra teatro dell’assurdo e narrazione plausibile consente a Viking di esplorare questa dimensione magica costruita sulla Terra sfruttando fino in fondo le interazioni tra i personaggi laddove la parte tecnica non può arrivare. E, rispetto all’abuso di color correction e motion graphic, c’è comunque una fotografia densa e calda che fa indossare allo spettatore la tuta pressurizzata nonostante non ce ne sia il minimo bisogno. Senza contare la scelta di mantenere una dimensione analogica con il ricorso alla pellicola.
Viking, infatti, è un film di fantascienza che osserva persone che interpretano altre persone nell’atto di ricreare una messa in scena per un bene superiore. Se già scritto suona un tantino bizzarro, il risultato dovrebbe essere inesorabilmente disastroso. Quello che però accade sullo schermo riesce a rovesciare ogni pregiudizio ed evitare diversi tranelli insiti nei confini della realtà. Oltre allo spazio vero e presunto, viene fuori alla distanza la capacità ancorare la finzione agli aspetti umani che resistono anche in assenza di gravità. L’importanza di compiere qualcosa più grande di sè stessi, uscendo dall’anonimato della quotidianità, è un motore inesauribile di situazioni al limite dell’incredibile che si alternano per trovare risposte estremamente personali.
Che è un po’ il destino di questo film, un calabrone capace di far vedere lo spazio profondo senza l’ausilio di green screen, ma ignorato da distribuzioni e piattaforme nonostante la selezione nella rassegna Giornate del cinema quebecchese. Un peccato a cui si spera qualcuno possa porre rimedio, perché un posto a chi se lo merita nella sterminata offerta audiovisiva contemporanea non si nega a nessuno. Il mix paradossale ha tutte le carte in regola, pronte ad essere sparigliate.
P.S.
Piacere di aver scritto questa recensione.