Vikings: Valhalla recensione serie TV Netflix di Jeb Stuart con Sam Corlett, Leo Suter, Frida Gustavsson, Bradley Freegard, Laura Berlin, Jóhannes Haukur Jóhannesson, David Oakes e Asbjørn Krogh Nissen
Avete sposato una normanna. Siamo noi che creiamo incubi.
(Laura Berlin in Vikings: Valhalla)
Tra guerre di spade e di religione, avidità terrena e spiritualità divina, giustizia e vendetta, Vikings: Valhalla prosegue il fortunato franchise creato da Michael Hirst sotto una guida tutta nuova, Jeb Stuart (Il fuggitivo, Die Hard, Sorvegliato speciale, Leviathan), e un nuovo produttore, Netflix, molto lontano dalla prospettiva, dai temi e dal realismo di History, ripartendo dagli eventi di cento anni dopo e dal massacro del giorno di san Brizio in cui Re Etelredo II d’Inghilterra (Bosco Hogan nella finzione) ordinò lo sterminio di tutti i danesi presenti nel Regno di Inghilterra.
Ne nasce un titolo ibrido che, se da un lato non rinuncia a solleticare il mito di Ragnar Lodbrok, Bjorn la Corazza, Lagertha, Ivar Senz’Ossa e Rollo – capostipite della Casa di Normandia e figura chiave alla luce di quella che sarà l’ascesa di Guglielmo il Conquistatore, che a dispetto delle comunicazioni promozionali vedremo soltanto nelle prossime stagioni di Vikings: Valhalla – dall’altro stenta a costruire una propria identità e un proprio tono dall’ampio respiro.
I miracoli, come gli accordi col diavolo, hanno sempre qualche vincolo.
(Jóhannes Haukur Jóhannesson in Vikings: Valhalla)
Vikings: Valhalla centellina la componente sessuale – laddove il sesso appare comunque progressista e le relazioni basate sul rispetto reciproco tra donne di grande volontà e uomini ambiziosi che se ne innamorano, con protagoniste le coppie formate da Freydis Eriksdotter (Frida Gustavsson) e Harald Hardrada (Leo Suter), Emma di Normandia (Laura Berlin) e Re Canuto (Bradley Freegard) -, soffre nelle sequenze di battaglia in termini sia di stunt che di epica e per parte abbondante della narrazione non trova il giusto equilibrio tra i vari temi serviti quali vendetta, cupidigia, religione.
Nel momento in cui poi la serie si spezza in due linee narrative, tra l’assedio vichingo a Londra con tanto di spettacolare caduta del London Bridge ed il cammino spirituale di Freydis ultima figlia di Uppsala predestinata degli dei del Valhalla Odino, Thor e Freya, quest’ultima storyline soffre ad affermarsi e a trovare la sua piena consapevolezza, mentre al di là di una spruzzata inconsistente di girl power – la leader delle amazzoni di Kattegat, Altora (Annabelle Mandeng), viene uccisa letteralmente alla prima pugnalata da parte del primo soldato anonimo che incrocia – il discorso religione rimane invece balbettante, quasi una condanna senza appello al cristianesimo sanguinario.
– E se io non credessi in Dio?
– Forse è lui che crede in te.
(Sam Corlett e Leo Suter in Vikings: Valhalla)
Verso l’epilogo tuttavia, quando le premesse di assistere ad una nuova serie dirompente sembravano ormai disattese, Vikings: Valhalla riesce a ritrovare compattezza e ad infondere finalmente spessore ai suoi personaggi, sia attraverso la graduale e sudata costruzione dei protagonisti principali che di un universo di comprimari, famiglie, fazioni e volti nuovi che rivelandosi insieme sul finale dimostra come l’intento fosse quello di porre pian piano le basi per le stagioni a venire, tra guerre di conquista, scontri fratricidi e amori appassionati sia a corte che in battaglia, mentre gli eroi si rinsaldano sul concentrarsi sui valori condivisi e non sulle differenze etniche e religiose.
Vikings: Valhalla si prende dunque un’intera, prima stagione per completare lo schieramento di tutte le sue forze in campo e costruire convincenti premesse per il prosieguo della narrazione, seppur l’epica, la parvenza di realismo ed il magnetismo dei personaggi della saga originale sembrano ancora distanti.