West Side Story recensione film di Steven Spielberg con Ansel Elgort, Rachel Zegler, Ariana DeBose, David Alvarez, Ana Isabelle, Corey Stoll e Rita Moreno
Arriva un momento, nella vita di un creativo, in cui bisogna fare i conti con le particolarità della propria esistenza. C’è chi lo rende la stella polare della propria produzione, chi aspetta di essere al culmine della propria maturità per condividerlo con il mondo o chi ne dissemina frammenti all’interno di ogni appendice. Chiedere a Federico Fellini, Damien Chazelle, Darren Aronofsky, Paolo Sorrentino (giusto per fare qualche nome) per credere, ma la lista è sterminata e aggiornata di continuo. Chi ha il compito, l’urgenza e la capacità di immaginare, filtra la realtà con un bagaglio personale fatto di suggestioni, ossessioni e frammenti di esperienze passate con cui gli spettatori entrano in profonda sintonia.
Un harem di donne incontrate e desiderate nella vita, una religiosità ammantata di mistero, la musica come chiave di volta dell’esistenza. Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le sensibilità. Anche per questo motivo, in apertura di un film d’azione del 1984, c’è una destabilizzante sequenza musical. Il film è Indiana Jones e il tempio maledetto, il regista Steven Spielberg.
Potrebbe sembrare un momento fuori posto o un caso isolato, ma grazie alla lente offerta da West Side Story tutto sembra combaciare alla perfezione. Un lampo freudiano, un’occasione per dar voce alla propria coscienza prima del momento giusto e dell’esperienza necessaria per restituire ciò che si è avuto la fortuna di incontrare. Il pluripremiato regista statunitense ritorna finalmente alla propria infanzia, all’amore per la prima musica popolare che la sua famiglia abbia mai lasciato entrare in casa e a un’opera che trasuda di pezzi della sua vita oltre ad essere uno dei primi amori cinematografici. Si torna sempre dove si è stati bene, si cerca sempre di rivivere le sensazioni che lasciano un traccia corporea impossibile da dimenticare.
La rivalità che separa i Jets dagli Sharks e contiene la storia d’amore tra Maria (Rachel Zegler) e Tony (Ansel Elgort) è parte di un immaginario universale affermato con dovizia di particolari da William Shakespeare. È un banco di prova stimolante per Spielberg, l’occasione perfetta per mettere in mostra l’uomo dietro il regista e la vita dietro le immagini. Si gioca con l’originale del 1961 integrando un punto di vista mutato dall’enorme lasso di tempo trascorso e dalle enormi quantità di acqua passate sotto i ponti senza nulla togliere alla potenza su schermo. Sulle note e i testi consegnati alla storia da Leonard Bernstein, non si viene coinvolti solo in una guerra tra bande per il controllo della miseria sociale o in una riproposizione contemporanea di Romeo e Giulietta. Ci si affaccia su un modo di vedere le cose che, per dimensioni e vitalità, ricorda quello di un bambino esuberante e fremente di fronte alla realtà.
Il fanciullino Spielberg sottrae West Side Story alla sua storia passata per ricordare a se stesso e a noi come ci sia bisogno di colori, ritmo e corpi per arrivare a delle verità che possono conoscere solo gli occhi e il cuore. Una spirale di sudore, impulsività e intuizione che facilmente può lasciare piacevolmente interdetti.