Wolfkin recensione film di Jacques Molitor con Louise Manteau, Victor Dieu, Marja-Leen Junker e Marco Lorenzini
Il nuovo film di Jacques Molitor è in uscita nelle sale italiane dal 24 agosto. Frutto di una coproduzione belga-lussemburghese e distribuito in Italia da Satine Noir, Wolfkin è un horror atipico che non nasconde una determinata critica sociale.
Nel cast figurano Louise Manteau, Victor Dieu, Marja-Leena Junker, Marco Lorenzini, Jules Werner e Myriam Müller.
La trama
Elaine (Louise Manteau) è una giovane madre che cresce da sola il figlio Martin (Victor Dieu), nato dall’amore travolgente con il misterioso Patrick. Abbandonata da quest’ultimo dopo un ultimo travolgente amplesso, Elaine cerca di donare a Martin la miglior vita possibile, nonostante i turni massacranti al lavoro e le modeste disponibilità economiche. L’equilibrio in famiglia si complica ulteriormente quando Martin comincia a manifestare atteggiamenti molto strani e aggressivi, che costringono la giovane donna a chiedere addirittura aiuto agli Urwald, la facoltosa famiglia dell’ormai scomparso Patrick. La conoscenza degli Urwald farà capire ad Elaine la vera natura del figlio, in un susseguirsi di agghiaccianti colpi di scena e di imprevedibili dinamiche familiari.
Dove non tutto è perfetto
Al suo secondo lungometraggio dopo Mammejong (2015), Jacques Molitor cerca con Wolfkin di esprimere una serrata critica alla sua madrepatria: il Lussemburgo. La sua è una denuncia che, plasmata naturalmente dai più consueti stilemi dell’horror, si muove su due diversi livelli: nel primo, si circuisce la spinosa tematica del ruolo delle donne nella società; nel secondo, si tenta una disamina assai complessa sulle presunte difficoltà di integrazione per uno straniero in Lussemburgo. In entrambi i casi, ruolo fondamentale è assunto dall’affascinante regione turistica della Mosella: proprio qui, in una vera e propria valle incantata, si nascondono però le radici dei mali più insospettabili.
Il punto di partenza di Wolfkin è quindi perfetto, in quanto gioca sullo spaesamento e coglie di sorpresa lo spettatore. Anche la veste indossata dal film, ovvero un genere che dovrebbe articolare l’intera storia su angoscianti jumpscare e su un uso spasmodico di sangue, sembra calzare perfettamente con la storia che vuole raccontare Molitor. D’altronde, sin dagli albori l’horror si è ben prestato a evidenziare soprusi e storture di marca squisitamente sociale. Negli ultimi anni, basti pensare alla breve ma intensissima filmografia di Jordan Peele. Eppure, nell’opera del regista lussemburghese c’è qualcosa che proprio non torna.
Una critica sociale che fatica a carburare
Prescindendo dalle interpretazioni non proprio memorabili, con l’eccezione di Louise Manteau, perfetta nel ruolo di una madre coraggiosa che perde pian piano la sua forza interiore, Wolfkin si rivela decisamente debole quando deve risolvere le varie denunce sociali che pur intavola bene per lunghe – forse un po’ prolisse – sezioni dell’opera.
Una delle critiche più evidenti riguarda le difficoltà di una madre single nel crescere un figlio problematico. Tuttavia, riguardo alla critica della xenofobia dilagante nei “pacati” paesi del Belgio e del Lussemburgo, emergono alcune riserve e punti di discussione.
Le colpe sembrano dunque di una scrittura incapace di trovare un giusto equilibrio tra la storia in sé, giustamente indirizzata sui binari dello “spavento che deve intrattenere” e gli audaci messaggi sociali che Wolfkin intende veicolare. Inoltre, non meno importante, la sceneggiatura curata da Régine Abadia, Magali Negroni e dello stesso Molitor pecca clamorosamente negli ultimi dieci minuti della pellicola, con un finale scioccamente sbrigativo e girato in modo assai scolastico.
Nonostante risulti piuttosto prevedibile, l’unico elemento che si distingue è l’evoluzione del rapporto madre-figlio: è la ciliegina su una torta ben confezionata, anche se dal sapore quasi del tutto scialbo.