Woman of the Photographs recensione film di Takeshi Kushida con Hideki Nagai, Itsuki Otaki, Toshiaki Inomata e Toki Koinuma al Ravenna Nightmare 2020
Sempre, nel corso del tempo, si è riflettuto sul concetto di immagine. Il cinema ovviamente ha dedicato buona parte della sua produzione a questo tema, che è intrinseco nella sua stessa natura. Woman of the Photographs, opera prima di Takeshi Kushida presentata in concorso al Ravenna Nightmare Film Festival, elegge il concetto a elemento di indagine teorica. Com’è cambiata oggi l’immagine? Esiste ancora una rispondenza tra realtà e rappresentazione di essa?
Il film parte dall’incontro tra un fotografo, incapace di avere un contatto con una donna, e una giovane modella, che mostra i segni di una cicatrice procuratasi per un incidente su un albero. Tra i due si crea un legame, dettato inizialmente dalla necessità di coprire quella imperfezione proprio grazie all’utilizzo della correzione fotografica. Ben presto subentra però una lacerazione nell’animo della giovane, che recupera l’immagine reale di sé e la posta sui social, ottenendo un gradimento perso nel corso del tempo. Ma quindi i followers sono alla ricerca della verità?
Woman of the Photographs, come spesso accade nella tradizione orientale, è un film che predilige la domanda alla risposta. Quasi del tutto privo di dialoghi, si sviluppa utilizzando gli sguardi come raccordi e servendosi della musica e dell’amplificazione dei rumori (soprattutto quando si mangia) per coprire il vuoto lasciato dalle parole. La chiarezza narrativa lascia il più delle volte spazio alla rappresentazione metaforica: è come se tutto avesse una doppia chiave di lettura, un significato nascosto.
Come diceva Roland Barthes, “Le immagini fotografiche sono un messaggio senza un codice”. E così Takeshi Kushida fa sua questa massima per raccontarci come è cambiato il rapporto tra immagine e realtà in un contesto in cui tutto può essere modificato e può diventare artefatto. Sono i social media a dettare legge, l’unica cosa che conta è replicare quello che la gente si aspetta da noi, anche se si tratta di una forzatura del nostro io. In questo caso, il regista giapponese riesce quindi ad arrivare al cuore del suo messaggio, a dare forza al significato nascosto della sua opera.
Il film non funziona, invece, quando prova a raggiungere un gradino più alto e crea la metafora con la mantide religiosa. Nella seconda parte, la narrazione comincia a scricchiolare e si ingarbuglia in una serie di sequenze nonsense che hanno come riferimento il cinema di Tsukamoto o Cronenberg senza replicarne la forza. Il legame tra i due si caratterizza con una forma di sottomissione, assimilabile proprio a quella del maschio della mantide, che non ha però una reale rispondenza nel rapporto rappresentato dal regista. È come se Kushida si perdesse tra i vari piani del suo racconto, arrivando allo scopo solamente in alcuni di questo. Il tutto reso ancora più complicato da una progressiva caduta di ritmo nella parte finale e da un’esasperazione del concetto di autolesionismo, in verità molto comune a una certa tendenza del cinema giapponese.
Woman of the Photographs si perde gradualmente nella sua ambizione. È un film che affascina ma allo stesso tempo crea una distanza col suo spettatore. Ha coraggio ma forse eccede nella ricerca dell’eccentrico a ogni costo. Regala momenti di innegabile inquietudine ma li alterna con pericolosi giri a vuoto.
Un’opera che rimane vittima della sua stessa indagine teorica, dimostrando quanto sia importante nel cinema usare il cuore, oltre alla testa.