Yuli – Danza e libertà: recensione del biopic su Carlos Acosta diretto da Icíar Bollaín con Santiago Alfonso, sceneggiato da Paul Laverty
Raccontare la vita di una persona non è mai semplice, specialmente quando quest’ultima è ancora in vita. Ancora più complesso è raccontare la storia di se stessi. Autodefinirsi in quanto individuo richiede molta consapevolezza della propria personalità e delle proprie origini, altrimenti si rischia di scadere nel sensazionalismo delle proprie vicende. Molti sono caduti vittima di questo infido tranello narrativo, altrettanti non hanno imparato dagli errori del passato. Yuli – Danza e libertà, biopic sul ballerino cubano Carlos Acosta in uscita nelle sale italiane il prossimo 17 ottobre, non è da meno.
Il film esordisce in modo interessante, mostrando un certo interesse tanto per la componente narrativa quanto per quella visiva (il che non è sempre scontato in un biopic cinematografico, dove molto spesso la prima sovrasta la seconda nella sua totalità espressiva). La regista Icíar Bollaín mette subito in mostra una certa ricercatezza estetica nel raccontare le vicende di Carlos Acosta (soprannominato Yuli dal padre), figlio della povertà di L’Havana, costantemente sporco di fango, che trova la sua strada verso le maggiori compagnie di danza del mondo, tra cui il Royal Ballet di Londra. Un’evoluzione, questa, molto graduale nella prima parte, ma che si va totalmente a perdere nella seconda. Infatti, fintanto che il piccolo Acosta è il protagonista della scena, viene seguito un determinato stile, scandito con calma. Lo spettatore è, quindi, portato ad assimilare il ritmo con il quale la regista ha (apparentemente) intenzione di raccontare le vicende di Yuli.
Poi, di punto in bianco, con l’arrivo dell’Acosta maggiorenne, ormai rassegnato al mondo della danza, tutto il castello di carte meticolosamente costruito nella prima parte crolla inarrestabilmente. Le vicende iniziano ad accavallarsi tra il presente (dove troviamo il vero Acosta a interpretare la parte di se stesso) e il passato, mescolando avvenimenti ed emozioni. Sembra tutto eccessivamente condensato, come se quella parte della sua vita non fosse stata interessante quanto la sua giovinezza (il che è molto plausibile).
Di conseguenza, con l’avanzare del film, sembra che questa biografia/autobiografia (la sceneggiatura di Paul Laverty è tratta dal libro No Way Home scritto dallo stesso Acosta) sia solo un modo abbastanza pretenzioso e sensazionalistico di raccontare la vita di un ballerino che non ha incontrato neanche troppe difficoltà nella sua ascesa al successo. Alla fine, è sempre stato lui a mettersi i bastoni tra le ruote, in quanto è lui stesso a non voler intraprendere la carriera del ballerino in primo luogo. Infatti, è il padre (interpretato dalla vera rivelazione di questo film, Santiago Alfonso) a costringerlo a ballare in quanto vede in lui un talento innato. Ma è anche la sua insegnante che lo sprona per tutta la vita ad accettare le offerte che gli vengono proposte in giro per il mondo. Questo è il tratto distintivo della storia narrata. Solitamente, in biopic sulla danza troviamo sempre personaggi i cui sogni sono impediti dalla figura paterna, restia a far intraprendere questa via insidiosa alla propria prole, per la quale vuole stabilità e sicurezza. In Yuli i ruoli si invertono, il che rende la pellicola molto più interessante a livello concettuale.
È presente una dicotomia stridente tra umiltà irrazionale e narcisistica adorazione della propria persona che portano a un certo distaccamento dagli eventi raccontati, portandoci a chiedere se non siano solo frutto di qualche invenzione del ballerino. Infatti, durante i primi minuti della pellicola, l’Acosta del presente (rivolgendosi ai suoi ballerini) conferma il fatto che non tutto ciò che viene raccontato nel suo balletto/autobiografia è accaduto veramente, ma che molto è stato romanzato da lui stesso, seppur un velo di verità sia sempre presente. Questo balletto a cui si accenna è un’espediente narrativo apprezzabile che consiste nella rappresentazione coreografata delle vicende della vita dell’artista. In un biopic su di un ballerino è un elemento senz’altro interessante che presenta alcune coreografie molto d’impatto ai fini della narrazione di eventi chiave nella vita di Carlos.
Anche in questo caso, però, sono le prime coreografie quelle che convincono maggiormente sia a livello narrativo che visivo, molto probabilmente per la loro maggiore semplicità. È, infatti, con l’arrivo del successo che tutto diviene più sfarzoso e “complesso”, ottenendo però il risultato di depotenziare l’intensità della vita di Yuli. Forse era proprio questo l’intento: mostrare quanto egli risenta di non aver vissuto la sua giovinezza in quanto strappato dal nido familiare e catapultato in un mondo con il quale non voleva avere a che fare. Ma, anche se fosse questo il messaggio che volevano far trapelare dalle pieghe disordinate della narrazione, non sono riusciti a renderlo interessante tanto quanto ciò a cui ci avevano abituato inizialmente.
Così come è stato trattato, sembra solo che abbiano terminato le parti salienti della storia del ballerino, cercando di colmare i vuoti della sua vita con fittizi eventi estremamente romanzati e retrospettive dei suoi balletti (tra l’altro con la pessima scelta di affiancare filmati di repertorio, nei quali è presente il vero Carlos, a ricostruzioni di scena con l’attore che lo interpreta nella sua maturità, portando all’interruzione della continuità cinematografica). Anche in questo caso, il tranello è stato teso, seppur inizialmente le aspettative costruite da questo Yuli – Danza e libertà davano la vana speranza di una pellicola effettivamente diversa dal solito, intenzionata a raccontare veramente una storia di rivalsa sociale e non di semplice esaltazione della persona. Invece, ancora una volta, ci ritroviamo sul fondo del barile, con i pantaloni nuovamente inzaccherati di fango.